NOTIZIE DALLA GALLIA CISALPINA II/2024


TESTA DI MINERVA DA PALAZZO PIGNANO

 da ” La provincia di Cremona”

Il ritrovamento risale a sei mesi fa, ovvero in concomitanza con l’ultima campagna di scavi effettuata dagli archeologi della Cattolica nell’area della villa tardo romana. Ma l’ufficializzazione è stata data solo ieri da Furio Sacchi docente responsabile delle ricerche, in accordo con la sovrintendenza ai beni culturali e artistici di Cremona e Mantova. Informata ovviamente anche l’amministrazione comunale. Una testa di Minerva, dea della giustizia e della saggezza, è stata rinvenuta dagli studenti del professor Sacchi.

Un ritrovamento assolutamente raro considerando l’epoca della villa, giunta al suo apice ormai in pieno cristianesimo, era il IV-V secolo dopo Cristo. Un tale simbolo pagano non si sa come è scampato alla distruzione, all’oblio. Com’era solito avvenire il marmo, il materiale di cui è fatta la testa, si recuperava per altre costruzioni. A maggior ragione se rappresentava una divinità che doveva essere cancellata dalla memoria per affermare la nuova religione. Dopo alcuni mesi di indagini e verifiche Sacchi, che insegna archeologia classica in Cattolica, e il suo team hanno potuto affermare con certezza che si trattava di un reperto molto più antico rispetto alla datazione della villa, centro agricolo autosufficiente che rappresenta una testimonianza fondamentale della presenza romana nel Cremasco.

Dopo il restauro la testa verrà esposta nell’Antiquarium, il piccolo museo a poche decine di metri dagli scavi e dalla pieve di San Martino, che ospita i reperti emersi in questi decenni dall’area archeologica. Da quanto è emerso dagli studi condotti sul ritrovamento, la statua della dea doveva misurare circa un metro, un metro e venti centimetri di altezza. Probabilmente non era sola, ma faceva parte di un ciclo di sculture. E’ stata ritrovava a fianco dei resti della grande sala absidata della villa. Magari era una scultura destinata a un luogo di studio, essendo appunto minerva dea della saggezza e della giustizia, ad esempio una biblioteca.

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VENETI :SACRIFICI UMANI O ESECUZIONI ?

Lo dicono a mezza voce, da studiosi seri vanno con i piedi di piombo e si limitano a parlare di ipotesi, suggestioni che dovrebbero essere supportate da riscontri e da un rosario di elementi oggettivi che oggi non ci sono. Ma il dato di partenza nudo e crudo legato allo scavo e all’analisi di alcune tombe della necropoli preromana di Padova (VII-VI secolo AC) apre la strada al dubbio: quei corpi sepolti in modo totalmente differente dagli altri, rannicchiati, in un paio di casi con le mani che sembrano legate, possono essere riconducibili a una situazione punitiva? Ovvero, veneti del primo millennio avanti Cristo che erano stati condannati a morte o peggio vittime di sacrifici umani?

Abbiamo alcune situazioni su cui al massimo possiamo coltivare un sospetto – spiega Giovanna Gambacurta, professore associato di Etruscologia e Archeologia italica a Ca’ Foscari – per l’anomalia che presentano alcune sepolture a inumazione (peraltro nel complesso poche a fronte della gran parte a incinerazione, ndr). In pochissimi casi abbiamo trovato gli scheletri scomposti, apparentemente gettati nella tomba senza cura, con mani e piedi legati. Certamente sepolture diverse dalle altre, che dimostravano invece attenzione per la posizione del corpo nella classica postura con le mani giunte sul petto o lungo il corpo e per la disposizione degli arredi funebri del sepolto. Supponiamo che possano essere riconducibili a situazione di sacrificio o punizione, ma sappiamo poco o nulla di questa società per poter arrivare a certezze di qualche tipo e non abbiamo prove per sostenerlo. Noi archeologi non viviamo di certezze…».

LE RIVELAZIONI

Un passo indietro: stiamo parlando di quanto stanno rivelando le tombe prelevate agli inizi degli anni ‘90 dalla necropoli tra via Tiepolo e via San Massimo a Padova e incassonate in un magazzino della città, dove da trent’anni a questa parte – peraltro con un lunghissimo periodo di stop – proseguono i lavori di scavo, analisi e restauro degli oggetti funerari. La storia di questo intervento è in parte legata al percorso della professoressa Gambacurta, giovane collaboratrice della Soprintendenza quando l’area in parola fu interessata dai lavori per la costruzione di un edificio dell’Esu di Padova. «Nella consapevolezza che si trattava di un’area archeologica di estrema importanza nel cuore della città – ricorda la professoressa – si procedette prima alla scavo di alcune tombe e poi alla rimozione della gran parte per sistemarle in un magazzino e procedere con calma all’analisi successiva» In sostanza, vennero prelevate vere e proprie grandi zolle di terra con all’interno le tombe (solitamente più di una per ogni cassone) .

Dopo una prima fase di lavori i cassoni sono rimasti per anni “dimenticati” fino a quando nel 2016, arrivata in cattedra a Ca’ Foscari, Giovanna Gambacurta si è messa in testa di tornare a lavorare su quelle tombe dei nostri antenati. «C’erano ragioni di studio importanti – ricorda – ma parallelamente la possibilità di fare didattica dando agli studenti la possibilità di lavorare “sul campo”. Ho avuto il supporto dell’Università di Ca’ Foscari, massima collaborazione dalla Soprintendenza di Padova, l’attenzione di Comune e Regione. Una bella sinergia che ha prodotto risultati importanti: a oggi sono stati esaminati 57 cassoni su 75 e 97 tombe su 120».

L’AIUTO DALLA TAC


E tante eccellenze si sono messe a disposizione per ricavare il meglio. «Rispetto agli studi dei primi anni ‘90 abbiamo potuto far leva sulle nuove tecnologie – spiega Gambacurta – grazie ad esempio alla collaborazione con l’Azienda ospedaliera universitaria patavina: attraverso analisi di antropologia fisica e sfruttando la Tac sappiamo ad esempio cosa troveremo all’interno delle tombe e dei recipienti. E ora è tutto informatizzato per effetto del lavoro di un centro di eccellenza come quello di Ca’ Foscari, che ci consente di andare avanti anche con l’idea di ricostruire digitalmente il villaggio».

Proprio perché poco si sa della civiltà degli antichi veneti  preziosissime sono le informazioni che arrivano dallo studio della necropoli su una società basata sull’organizzazione delle famiglie. «E’ di straordinario interesse – evidenzia l’archeologa – rilevare come seppellivano, cosa mettevano nella tomba e come aggregavano. Come abbiamo detto quasi tutti i corpi erano cremati, sbarrando quindi la strada all’analisi del Dna. Ma anche qui l’evoluzione della ricerca ci ha dato una mano e l’analisi dei residui basata sugli isotopi dello stronzio ha permesso di capire se il corpo sepolto era nato e cresciuto a Padova o era quello di un forestiero». Una sorta di identikit della composizione delle più antiche famiglie di Padova, pure per molti aspetti rivelatrice. «Le sepolture erano per gruppi, sorta di tombe di famiglia. Ebbene la ricerca ha evidenziato che tra i sepolti di una stesso gruppo familiare spesso c’era uno “straniero”, aggregato di fatto a quel determinato ceppo, con un riscontro collegato anche agli oggetti del corredo funebre che ne certificano l’origine non autoctona. Una prova che attraverso il corridoio delle Alpi Padova integrava i forestieri». Già, ogni epoca ha i suoi migranti. ( Fonte il gazzettino artico di T. Graziottin)

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IL DOLIO DELLE MERAVIGLIE DI BOLOGNA

Il Museo Civico Archeologico di Bologna presenta una nuova esposizione del Ripostiglio di San Francesco, un importante deposito dell’Età del Ferro in Italia. Dal 11 febbraio al 6 aprile, il museo ospiterà il ciclo di conferenze, visite guidate e laboratori “Il dolio delle meraviglie”, focalizzati sul valore straordinario di questo reperto, definito “importante per la storia di Bologna, soprattutto dal punto di vista archeologico” da Eva Degli Innocenti, direttrice del settore musei civici del capoluogo emiliano.


La scoperta del Ripostiglio avvenne nel 1877 da parte dell’archeologo Antonio Zannoni nella Basilica di San Francesco, dove venne ritrovato un grande vaso di terracotta, noto come “dolio”, contenente circa 14 quintali di 14.841 oggetti metallici, tutti accuratamente catalogati. Questi reperti, che risalgono dalla fine dell’Età del Bronzo agli inizi del VII secolo a.C., includono armi, oggetti ornamentali, utensili, frammenti di vasellame e altro ancora.
Per rendere l’esposizione accessibile al pubblico, saranno esposti solo 3.500 pezzi, suddivisi per tipologia e serie, con un intervento di riqualificazione dell’illuminazione e dell’allestimento della Sala Xb del Museo. Il nuovo allestimento è stato reso possibile grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna, della Fondazione Luigi Rovati di Milano e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.

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SPUNTA UNA STATUA NELLE CAMPAGNE  DI ALTINO

Ad un primo sguardo sembrava un blocco di pietra qualunque, ma poi, guardando meglio, si vedeva invece la forma di una testa, con il volto dai tratti ben conservati e un curioso copricapo con una punta ricurva. La segnalazione giunta alla Soprintendenza archeologia,belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna e ai carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale di Venezia ha fatto scattare i sopralluoghi degli archeologi, che hanno subito compreso l’eccezionalità della scoperta.

Il recupero è stato affidato dalla Soprintendenza, in collaborazione con la direzione regionale Musei Veneto, agli archeologi della ditta Malvestio di Concordia Sagittaria, che ha proceduto a un vero e proprio piccolo scavo stratigrafico, necessario per comprenderne il contesto e recuperare materiale datante. Si tratta di una scultura sostanzialmente integra, che raffigura un personaggio maschile seduto su una roccia, con il busto proteso in avanti e la schiena curva. Con un braccio si sostiene appoggiandosi sulle ginocchia, con l’altro mantiene il colletto della veste, avvolgente e dal raffinato panneggio. Il personaggio indossa inoltre un ampio mantello, che sulla testa assume la forma appuntita del tipico berretto frigio. E’ triste, perché sta partecipando al dolore per la scomparsa della persona seppellita nel monumento funerario di cui faceva parte.

La pertinenza a un importante mausoleo è indiziata anche dalla posizione del ritrovamento: nelle vicinanze del tracciato dell’antica via Annia, lungo la quale – come lungo tutte le strade periurbane in età romana – si distribuiva la necropoli della città. Due i prossimi passi da parte degli esperti della Soprintendenza e della direzione regionale Musei: studiare approfonditamente reperto e contesto di rinvenimento e metterlo a disposizione del pubblico in uno degli spazi espositivi del Museo di Altino. ( da Veneziatoday.it)

EDIFICI ROMANI IN PROVINCIA DI FERRARA

Da stilarte.it

A seguito degli interventi di scavo a Ostellato per la posa della nuova condotta idrica su via dei Lidi ferraresi, da parte di CADF La fabbrica dell’acqua, sono stati portati alla luce interessanti resti del periodo romano. Lo ha comunicato ora il Mic – Segretariato Regionale per l’Emilia-Romagna. Ostellato (Ustlà in dialetto ferrarese) è un comune di 5 595 abitanti della provincia di Ferrara in Emilia-Romagna. Fa parte dell’Unione dei comuni Valli e Delizie.

Continua a leggere su: https://stilearte.it/scavi-per-lacquedotto-sorpresa-scoperti-edifici-romani-in-provincia-di-ferrara-cosa-sono-trovati-prodotti-antichi-pluri-marchio/

LAPIDARIUM: STORIE DI VITA A RIMINI E SUL DELTA DEL PO RACCONTATE DALLE PIETRE

Porta Montanara a Rimini

Ho iniziato questo post dopo essermi imbattuto in un articolo del 1915 relativo alla scoperta di una lapide presso la porta Montanara di Rimini . Mi ha attirato sia il tema di due coniugi che intrecciano le loro vite , sia e soprattutto la fattura primitiva dello scolpito che richiama un po’ le opere gallo-romane e un po’ le successive opere alto medioevali .

Man mano che cercavo materiale su questo ritrovamento , ho scoperto tante altre storie affascinanti che creano un ponte non solo ideale tra le vite degli antichi e quella di oggi . Nel caso poi proprio di Rimini questo è ancora più vero perché il Lapidario romano nel Museo della Città , è stato riscoperto nel 2013 dai ragazzi del Liceo Classico “Giulio Cesare” che, dopo aver contribuito alla pulizia delle 68 lapidi conservate, le hanno studiate per consegnarle a una rinnovata lettura. La passione che ha spinto insegnanti, esperti del Museo e studenti ha permesso poi di creare sia una guida on line disponibile qui di seguito

https://lepietreraccontano.wordpress.com/

sia di pubblicare una guida cartacea ” giovane ” disponibile ad una lettura più tradizionale:

https://www.panozzoeditore.com/le-pietre-raccontano

Il ponte di Tiberio a Rimini. Chissà le persone di questo LAPIDARIUM quante volte l ‘avranno attraversato..

Tra le tante storie scritte sulle lapidi mi ha particolarmente colpito quella del sarcofago di Irene una bambina di 1 anno e mezzo morta purtroppo troppo presto.

HIC EGO SUM  POSITA IRENE /

QUAE VIXI  XVIII KAL(endas) HANC MEI MI(hi)/

MISER(a)E  POSUER(unt) ARKA(m) PARENTES /

FELICISSIMUS AUG(usti) LIB(ertus) ET FURFULANA IRENE

Io, Irene, sono stata posta qui, io che vissi 18 mesi. Qui, per me sventurata, hanno posto il sarcofago i miai genitori

Felicissimo, liberto di Augusto, e Furfulana Irene

Mi ha colpito anche quella di VENERIA:

SEPTIMIAE VENERIAE / NAT(ione) NORIC(ae) CONIUGI / DUL(cissimae) QUAE  VIX(it) ANNIS  /  XXXX  T(itus) FL(avius) MARCELLUS  / VETER(anus) AUG(ustorum)

Alla dolcissima moglie Settimia Veneria, nata nel Norico (Austria), che visse quarant’anni.

Tito Flavio Marcello, veterano di due imperatori (pose il monumento).

L’urna, di cui non si conserva il coperchio, è stata ritrovata all’interno di una delle più estese necropoli di Ariminum, quella al di fuori di Porta Montanara.

Il monumento funerario è dedicato ad una donna deceduta all’età di 40 anni dal marito Tito Flavio Marcello, un veterano dimesso durante il regno di due imperatori, Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169) o i Severi (Caracalla e Geta, insieme nel 211).

Seppur nel conciso linguaggio dell’epigrafe, l’uomo non manca di lodare le qualità della moglie defunta, ricordandola come compagna dolcissima.

Di Veneria, oltre a conoscere l’appartenenza alla gens Septimia, sappiamo che era originaria della provincia del Norico (Austria).

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Altre storie di Pietra dalla Regio Aemilia/ Cispadana :

I FADIENI UNA FAMIGLIA ROMANA SUL DELTA DEL PO’:

Le stele scolpite, le intense iscrizioni, i ritratti dei defunti, i reperti dei corredi funerari, bronzi, monete e una rara raccolta di vasi in vetro finemente lavorati. Si chiamavano Caius, Marcus, Tertia, in tutto 12 tombe, una sola famiglia, i Fadieni. La loro necropoli racconta la storia di una famiglia benestante della prima età imperiale ma anche il vivere di un’intera civiltà, con i propri usi e consuetudini. Le epigrafi intrecciano il quotidiano con i simboli dell’umano desiderio di immortalità e attestano un rapporto di parentela tra i defunti che si snoda per quattro generazioni, genitori, figli e nipoti.

Il sepolcreto dei Fadieni (I e II sec. d.C., età imperiale) è venuto alla luce in due campagne di scavo: alla casuale scoperta di ben tre stele, risalente all’autunno del 2002, è seguita una breve indagine che ha recuperato quattro basamenti allineati, una quarta lapide rovesciata accanto alla propria base e alcune tombe, fino al ritrovamento dell’ultima stele, con relativa sepoltura e corredo, avvenuta nel 2005.stele più antica è quella di Caius Fadienus, Cai filius, e di Ambulasia Anucio, Marci filia, cui segue quella sulla cui epigrafe Fadienus Repentius, Cai filius, e Cursoria Secunda, Luci filia, piangono la prematura scomparsa di Caius Fadienus Vegetus morto a 21 anni.

Qui i busti drappeggiati dei tre personaggi sono posti in due nicchie rettangolari dal fondo ricurvo, gli adulti sopra e il giovane sotto.
Terza nel tempo viene la stele di Marcus Fadienus Massa, Cai filius, e di Valeria Secunda, Quinti filia. Nello specchio epigrafico che separa la nicchia con i busti dei due sposi dal riquadro sottostante -che rappresenta a basso rilievo un cavallo al passo volto a destra- è impaginato un testo con cui è proprio Marcus a rivolgersi di persona al lettore e viandante, esprimendo il vanto di essere stato coerente con i propri principi. L’epitaffio è dotato di una parte metrica che riecheggia non tanto le concezioni filosofiche che erano appannaggio dei circoli epicurei, quanto un sentire comune che, almeno a partire dal I sec. d.C., era entrato in gran parte della società.
Per ultima viene la stele che L. Fadienus Agilis, Marci filius, unito nella sepoltura ad Atilia Felicia, Cai liberta, dedica al figlio L. Fadienus Actor, morto all’età di 17 anni. Il giovane stringe nelle mani un rotolo e una penna, e porta un anello al mignolo della sinistra. Il busto è al centro di un clipeo solcato da modanature sul cui margine posa una corona di foglie con bacche, un fiore al centro in alto e nastri svolazzanti sotto, un simbolo che allude alla vittoria sulla morte.
Soltanto nella seconda campagna di scavo fu trovata la quinta stele dedicata dai genitori L. Pompennius Placidus, Caii filius, e Fadiena Tertia, Caii filia, al figlio Pompennius Valens, anch’egli scomparso prematuramente all’età di 23 anni.
Alla famiglia dei Fadieni parrebbero non essere stati estranei legami con elementi celtici posti con il cognomen Massa e il nome Ambulasia, se è dato di riconoscere in quest’ultimo un suffisso giustappunto celtico e se, di conseguenza, entrambi i nomi possono ritenersi indizi di un substrato che -per il vero- nel delta affiora grazie a non molti elementi, uno dei quali (la dedica votiva alle Iunones da Codigoro, pluralità di divinità femminili) ha carattere cultuale.
Una famiglia certo benestante per la quale l’esistenza di M. Fadienus Massa segna un periodo di affermazione economica e sociale: accanto al suo nome vi è l’indicazione della tribù di appartenenza e la moglie è della gens Valeria.

La stele più antica è quella di Caius Fadienus, Cai filius, e di Ambulasia Anucio, Marci filia, cui segue quella sulla cui epigrafe Fadienus Repentius, Cai filius, e Cursoria Secunda, Luci filia, piangono la prematura scomparsa di Caius Fadienus Vegetus morto a 21 anni. Qui i busti drappeggiati dei tre personaggi sono posti in due nicchie rettangolari dal fondo ricurvo, gli adulti sopra e il giovane sotto.
Terza nel tempo viene la stele di Marcus Fadienus Massa, Cai filius, e di Valeria Secunda, Quinti filia. Nello specchio epigrafico che separa la nicchia con i busti dei due sposi dal riquadro sottostante -che rappresenta a basso rilievo un cavallo al passo volto a destra- è impaginato un testo con cui è proprio Marcus a rivolgersi di persona al lettore e viandante, esprimendo il vanto di essere stato coerente con i propri principi. L’epitaffio è dotato di una parte metrica che riecheggia non tanto le concezioni filosofiche che erano appannaggio dei circoli epicurei, quanto un sentire comune che, almeno a partire dal I sec. d.C., era entrato in gran parte della società.
Per ultima viene la stele che L. Fadienus Agilis, Marci filius, unito nella sepoltura ad Atilia Felicia, Cai liberta, dedica al figlio L. Fadienus Actor, morto all’età di 17 anni. Il giovane stringe nelle mani un rotolo e una penna, e porta un anello al mignolo della sinistra. Il busto è al centro di un clipeo solcato da modanature sul cui margine posa una corona di foglie con bacche, un fiore al centro in alto e nastri svolazzanti sotto, un simbolo che allude alla vittoria sulla morte.
Soltanto nella seconda campagna di scavo fu trovata la quinta stele dedicata dai genitori L. Pompennius Placidus, Caii filius, e Fadiena Tertia, Caii filia, al figlio Pompennius Valens, anch’egli scomparso prematuramente all’età di 23 anni.
Alla famiglia dei Fadieni parrebbero non essere stati estranei legami con elementi celtici posti con il cognomen Massa e il nome Ambulasia, se è dato di riconoscere in quest’ultimo un suffisso giustappunto celtico e se, di conseguenza, entrambi i nomi possono ritenersi indizi di un substrato che -per il vero- nel delta affiora grazie a non molti elementi, uno dei quali (la dedica votiva alle Iunones da Codigoro, pluralità di divinità femminili) ha carattere cultuale.
Una famiglia certo benestante per la quale l’esistenza di M. Fadienus Massa segna un periodo di affermazione economica e sociale: accanto al suo nome vi è l’indicazione della tribù di appartenenza e la moglie è della gens Valeria. ( Fonte beni culturali Emilia Romagna http://www.archeobologna.beniculturali.it/comunicati_stampa/mors_inmatura.htm)

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PIETRE E COLORI DELLE CASE DI RIMINI CHE PARLANO DI VITE

Permettemi una divagazione finale. Se le pietre di cui abbiamo fino ad ora scritto , parlano di vita ma soprattutto di morte , diverso è il caso dei colori, delle pietre dei mattoni delle case che parlano ancora di un quotidiano fatto di amore , lavoro , voci di bambini, profumi dei cibi , quotidianità. Insomma tutto quello che riempie o dovrebbe riempire le case di oggi. Proprio per questo termino il post con questo link sui colori delle case della antica Ariminium:

DAI CELTO-LIGURI ALLA TARDA ROMANITÀ LUNGO IL PASSO DELLA CISA.

Nel 2011, la scoperta di una minuscola tessera da mosaico ha rivoluzionato la storia della regione parmense di epoca romana: si tratta dell’identificazione di un antico passaggio sulla via romana da Parma a Luni (sul mar Ligure) nella località Sella del Valoria (m 1224 slm).

Un rilevante ritrovamento archeologico che, in parte, altera le ipotesi storiche che fino a quel momento consideravano il passo della Cisa come l’unico attraversamento appenninico tra la regione parmense e la Lunigiana.

In seguito a tre campagne di scavi autorizzate dal ministero, sostenute dalla Fondazione Cariparma e dirette dall’archeologo Angelo Ghiretti, sono emerse direttamente sulla sella di valico del Valoria (2 km più ad est della Cisa) altre 17 tessere di mosaico, probabilmente smarrite da un carico in transito.

Ma le indagini hanno rivelato anche altro: un’area sacra con offerte votive che si estendono cronologicamente dalla tarda Età del Ferro al Tardoantico, in cui l’epoca romana è chiaramente la più rappresentata, con centinaia di offerte monetarie pro itu et reditu, miranti a garantirsi la protezione del dio durante l’andata e il ritorno del viaggio.

Numerosi sono anche i reperti militari, tra cui punte di giavellotto, borchie di calzari militari, frecce d’arco dell’età tardo-repubblicana, testimonianze del passaggio di armati, talvolta usate come doni votivi alla divinità a cui, in cima al valico, era dedicato un piccolo santuario, aedicula, eretto negli anni della romanizzazione del territorio tra il 190 e l’180 a.C.

Proprio attorno ad esso, segno della consacrazione romana del valico, furono scavate nel corso dei secoli centinaia di piccole fosse votive contenenti un’offerta al dio, di solito una moneta.

Dall’analisi delle 316 monete d’epoca romana rinvenute, è possibile risalire ai periodi, più o meno intensi, di utilizzo del percorso: si è così constatato, basandosi su circa 200 di esse, che ingenti flussi commerciali dovevano attraversare nei decenni successivi alla fondazione di Parma (183 a.C.); le restanti appartengono al periodo Tardoromano (IV-V secolo), mentre mancano monete per i secoli del periodo imperiale. Questo fatto potrebbe spiegarsi con lo spostamento della strada dal Valoria alla Cisa tra il I e il III secolo d.C., forse a causa di una frana sul versante lunigianese; la realizzazione di questa nuova via, come suggeriscono le interpretazioni dei reperti, avvenne sotto l’autorità di Augusto imperatore, patrono probabilmente sia di Parma che di Luni.

Dopo il III secolo, la crisi economica-militare portò all’abbandono del nuovo percorso e al ritorno alla cresta del Valoria, priva di infrastrutture e quindi sempre funzionale, come dimostrano le ultime offerte monetarie, attribuibili ai secoli IV e V.

La frequentazione del valico si interruppe con l’invasione longobarda (anno 568), che potrebbe essersi verificata almeno in parte attraverso il Valoria, come indicano alcuni reperti datati appunto alla seconda metà del VI secolo. Con la fondazione dell’abbazia bercetese ad opera del re longobardo Liutprando (anno 712), la strada della Cisa riprese il suo percorso dotandolo di xenodochi (S. Benedetto di Montelungo), e il Valoria perse così il suo ruolo, limitandosi a una funzione puramente locale.

CATALOGO:

https://www.academia.edu/resource/work/40544902

Cisa Romana – Fondazione Cariparma https://www.fondazionecrp.it/wp-content/uploads/2018/11/Alla-scoperta-della-Cisa-Romana-Catalogo-mostra1.pdf

Il valico della Cisa in età romana: la Sella del Valoria (Comuni di … https://www.fastionline.org/docs/FOLDER-it-2013-288.pdf

https://www.fondazionecrp.it/evento/alla-scoperta-della-cisa-romana-la-sella-del-valoria/

FELSINA LA BOLOGNA ETRUSCA.

La città di Bologna è l ‘antica città etrusca di FELSINA . La città è definita “princeps Etruriae” da Plinio il Vecchio, che le riconosce evidentemente un ruolo primario anche in età antica . Il luogo occupato da Bologna antica, ricoperto dalla città moderna, sfruttava una posizione favorevole allo sbocco del Reno in pianura ma a ridosso del Colle dell’Osservanza.

I sondaggi effettuati nel centro moderno tendono a riconoscere un’occupazione ri- salente già all’VIII secolo a.C., strutturata per villaggi, posti in prossimità delle necropoli; non ancora chiara è invece la posizione del villaggio di IX secolo, corrispondente alle necropoli di San Vitale e Savena, a est della città.

Dall’unione dei primitivi villaggi nacque FELSINA , coagulandosi attorno a un unico centro. Di questo periodo sono i rinvenimenti di fornaci e fonderie. L’economia si basava essenzialmente sull’agricoltura e sull’allevamento. Tali fonti permettevano il commercio con Spina collegata a Bologna tramite il corso del Reno. Spina aveva forse un ruolo di dipendenza nei confronti di Bologna, infatti una stele funeraria di tardo V secolo aC conserva la figura di un navarca con un piccolo esercito sul suo vascello. Altra area significativa è costituita dal santuario di Villa Cassarini (tardo VI-IV secolo a.C.), . Di gran lunga più imponenti sono i materiali provenienti dalle necropoli, che hanno permesso una periodizzazione della cultura dell’età del ferro che è servita di modello agli studi villanoviani.

Dopo il villanoviano 1, attestato nei sepolcreti di S. Vitale e Savena (IX secolo aC), con lo spostamento verso la zona occidentale, si svilupperá la futura Bologna con forme classificate nel villanoviano II (prima metà dell VIII secolo a.C) e III (seconda metà del I’Vill, prima metà del VII secolo a.C.).

Si riscontra una continuità culturale con la fase precedente attestata dal rito funerario dell’incinerazione, dall’ossuario biconico, da ornamenti personali in bronzo. Alcuni oggetti preziosi dimostrano una differenziazione delle classi agiate. Particolare significato assumono le tombe di “guerrieri”, con repertorio di armi, e di “cavalleri”; entro le quali sono depositati morsi di cavallo. Il periodo successivo, dalla metà del VII alla metà del VI secolo aC. (impropriamente denominato villanoviano IV), corrisponde alla massima espansione demografica di Felsina.

Sono evidenti ricche importazioni dall’E- truria interna, che continuano un flusso già iniziato nel villanoviano III (ceramica groca geometrica), in particolare per quanto concerne la bronzistica decorata, le oreficerie a le prime manifestazioni a li- vallo monumentale di stele decorate a bassorilievo (definite “protofelsinee”) con motivi orientalizzanti. Fra la metà del VI e la metà del IV secolo a. C. le necropoll, addensate fondamen tamente attorno alla Certosa, presentano sepolcri a pozzetto e a fossa con paramento lapideo (unica eccezione la tomba a cassone costruita a biocchi del Giardini Margherita), frequentemente segnalati da cippi o da stele a forma di ferro di cavallo, decorate a rilevi, con motivi riferiti in parte all attività del defunto, in parte al repertorio del viaggio l’oltretomba, e provvisti di iscrizionei nella quale è pre sente anche il nome del magistrato locale zilach magistrato. I servizi da banchetto rinvenuti nelle tombe presentano ora molta ceramica greca, in prevalenza attica a figure nere e rosse che dimostrano fondamentalmente l’approvvigionamento d beni dall’emporio spinetico Fra il 520 380 a.C Bologna è fra le maggiori acquirenti di tali prodotti , che si condensano soprattutto fra 475 425 aC. che di bronzi provenienti dall’Etruria meridionale con la quale rapporti sembrano gradatamente attenuarsi . Le tombe del periodo cosiddeto gallico (350-189 aC), prevalentemente a inumazione, sostituiscono alla ceramica attica a figure rosse quela proveniente dalle officine volterrane. La discesa dei Celti trovò in Bologna il centro insediativo più importante: i Galli Boi che vi si stanziarono lasciarono come eredità il nome di Bononia e scardinarono verosimilmente il sistema abitativo dell’asse del Reno, distruggendo Marzabotto e relegando l’emporio di Spina a funzioni di centro minore.( Rielaborato da dizionario della civiltà etrusca -M.Cristofani.ed Giunti)

Eccoci:

https://vm.tiktok.com/ZMY8XXQ3U/

Altri link:

ALEA JACTA EST! SULLE TRACCE DI CESARE LUNGO IL RUBICONE

UNA NUOVA IPOTESI SUL PERCORSO DI CESARE PRIMA DI ATTRAVERSARE IL RUBICONE.

Statua di Cesare sul Rubicone

Ha letto e riletto per anni gli scritti degli storici antichi e degli studiosi moderni, ma soprattutto ha analizzato i segni rimasti sul suolo, in particolare quelli della centuriazione d’epoca romana, e ha ragionato sulle mappe e sulle strategie militari. Alla fine, Giancarlo Brighi, acuto cultore cesenate del passato remoto, ha ricostruito così in modo dettagliato quello che probabilmente fu il percorso che Giulio Cesare fece durante il suo celebre attraversamento del fiume Rubicone. Un avvenimento che spalancò le porte alla caduta della Repubblica di Roma e al successivo avvento dell’Impero.

Colonna che segna il punto in cui secondo la tradizione Giulio Cesare pronuncia la frase Alea iacta est



La tesi di Brighi, minuziosamente argomentata e affascinante e spiegata in un libro che sarà presentato questa mattina alle 10 al circolo Endas di Ronta, è che sia di corto respiro una visione fissata in modo statico sul corso d’acqua del “dado è tratto”, attorno a cui esistono eterne dispute tra chi lo individua nel Pisciatello-Urgon cesenate, nel Rubicone-Fiumicino di Savignano o nell’Uso santarcangiolese. In realtà – sostiene Brighi – tra la zona di Ravenna nella Gallia Cisalpina e quella di Rimini, che era il limes dell’Italia romana, esisteva una sorta di “terra di nessuno”, a forma di triangolo rettangolo, che era una «trappola idraulica», cioè una zona allagabile con funzioni di difesa da possibili invasioni. E il fulcro di questa zona cuscinetto era Cesena, una piazzaforte in posizione rialzata rispetto al terreno inondato attorno, che sarebbe diventata un passaggio obbligato e quasi imprendibile per chi voleva evitare le sorvegliate vie consolari.
Sul lato nord-ovest questa area strategica aveva come perimetro il Savio, nel suo originario tracciato, poi modificato, che coincideva più o meno con l’attuale rio Granarolo. All’estremità sud-est c’era invece lo storico Rubicone al centro della vicenda più famosa dell’epopea cesariana, che Brighi identifica col Pisciatello, pur con un tracciato un po’ differente da quello odierno. È tra questi due «confini distinti e distanti» che fu lanciata la sfida alla Roma del Senato e di Pompeo.

Secondo Brighi, in quel gennaio dell’anno 49 .C. (il 10 secondo la tradizione, o forse l’11), Cesare uscì di sera da Ravenna, ma non si diresse direttamente verso Rimini lungo la via Popilia litoranea, su cui invece inviò alcuni legionari incaricati di simulare una diserzione. Scelse invece la via che conduceva verso le colline di Bertinoro, dove era concentrata metà della sua XIII legione. Poi, appena raggiunta la via Flaminia II, prolungamento ormai in disuso verso nord-ovest della Flamina, aveva intenzione di girare a est per raggiungere Rimini, attraversando la zona neutrale lungo le strade di confine tra la centuriazione cesenate e il territorio cervese. Ma vicino alle saline di Cervia trovò qualche ostacolo, probabilmente una zona allagata, e così fece una deviazione a sud, su terreni asciutti, e si smarrì, come narra Svetonio, forse anche per la nebbia. O magari si nascose? Fatto sta che finì per sbucare in un punto del Rubicone non previsto, usato dai contrabbandieri del tempo. A quel punto, attraversato il corso d’acqua, si incamminò verso la dimenticata Giovedia, località vicino al Rio Salto e all’attuale Torre di Villa Torlonia, a San Mauro Pascoli, per poi raggiungere il ponte di San Vito, sull’Uso. Oltrepassato anche quel torrente, raggiunse Casale e San Martino in Riparotta, vicino al Marecchia, e fu da lì che i suoi legionari piombarono poi su Rimini. Con un vantaggio: provenivano da una direzione che poteva fare pensare che fossero truppe pompeiane amiche arruolate ad Arezzo, in arrivo da là, e quindi ci fu l’effetto sorpresa, che facilitò l’occupazione della città

Il percorso ipotetico di Cesare

Altro link: l’accampamento di Cesare

CELTI SENONI A SERRA S.ABBONDIO

La storia del borgo di Serra S.Abbondio nelle Marche , al pari del suo attuale aspetto è prettamente medievale. Eppure questo borgo nell’alta valle del Cesano, in provincia di Pesaro-Urbino, è stata un tempo la terra dei Celti. Il ritrovamento di lunghe spade e dei relativi foderi in ferro tra i corredi funerari del IV e III secolo a.C. riportati alla luce, hanno consentito di aggiungere Serra Sant’Abbondio tra le località marchigiane in cui compaiono oggetti di tradizione gallica. Ecco allora una raccolta archeologica decisamente da vedere per saperne di più.

Eppure la storia di questo luogo è ben più antica e con protagonisti di tutto rilievo. La sorpresa arriva visitando la raccolta archeologica allestita nel Municipio, fortemente voluta dall’amministrazione comunale e fattivamente sostenuta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche. “Un tentativo di valorizzare ulteriormente un’area dai pregevoli valori naturalistici e ambientali e a forte vocazione turistico-culturale, mettendo a frutto le risorse impiegate nello scavo attraverso la presentazione at pubblico dei dati, anche se al momento solo preliminari, derivanti da queste scoperte – ci dice il sindaco Ludovico Caverni – testimonianze che aggiungono un importante tassello sul passaggio epocale che interessò il territorio marchigiano quando si estese il dominio romano”.

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Dunque i Celti a Serra Sant’Abbondio. E’ la presenza delle lunghe spade e dei foderi in ferro tra i corredi funerari del IV e III secolo a.C. rinvenuti nelle antiche sepolture casualmente tornate alla luce di annoverare questo territorio tra quelli in cui sono spuntati reperti di tradizione gallica. Reperti di grande interesse, quindi, per gli studiosi. “Da tempo il riconoscimento di armi e altri elementi tipici della civiltà di La Tene (nome con cui si indica la cultura archeologica dei Celti nei secoli precedenti la romanizzazione) è stato messo in relazione con lo stanziamento nel territorio della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali di gruppi appartenenti al popolo dei Sènoni – ci spiegano nel corso della visita alla raccolta archeologica – questa tribù faceva parte del grande popolo dei Celti, chiamati Galli dai Romani, provenienti dalle regioni centro-europee a nord delle Alpi.

L’arrivo dei Sènoni sulla penisola italiana si colloca all’inizio del IV secolo a.C., al culmine delle massicce migrazioni the avevano visto numerosi popoli celtici insediarsi in Italia settentrionale”. Una vicenda per certi versi misteriosa e decisamente intrigante: i Sènoni sono infatti ricordati dagli storici antichi come il più turbolento ed irrequieto del popolo dei Celti, e tra i principali responsabili dell’assedio di Roma nel 387-386 a.C., che occuparono indisturbatamente per alcuni mesi. “Questo evento segnò il loro prepotente ingresso nella storia del mondo mediterraneo: da questo momento le fonti storiche mettono in evidenza il peso che acquisirono le popolazioni galliche nello scacchiere politico della penisola italiana intervenendo con contingenti mercenari in favore di tiranni e città” spiegano gli archeologi.

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Il rinvenimento dei reperti dei Celti è avvenuto in occasione della realizzazione di infrastrutture e di opere di urbanizzazione in un’area tra Pian Santa Maria e Campietro, sulla strada che da Serra Sant’Abbondio conduce a Frontone, con l’individuazione di una piccola necropoli. Lo scavo, diretto da Gabriele Baldelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, durata per più anni, ha consentito di recuperare e studiare una cinquantina di sepolture databili alle ultime fasi dell’età picena e all’epoca romana, che presentano una suggestiva commistione di elementi culturali umbro-piceni, gallici, ed etrusco-romani nella fase di passaggio tra le due età, tra il IV e il III secolo a.C. In quattordici tombe sono state ritrovate armi che fanno pensare: “Se la maggior parte degli individui erano equipaggiati con una semplice lancia, cinque si distinguono per la presenza di una spade di tradizione celtica. Del cinturone non resta spesso che qualche raro anello. Non c’è, invece, nessun indice di armamento difensivo come elmi o scudi. A volte collocate alla testa del defunto, le armi, quasi sempre piegate, erano il più delle volte riposte in corrispondenza delle gambe, mentre le spade e i foderi sono deposti separatamente” raccontano gli studiosi.

Le spade e i foderi, di tipo La Téne, che segnalano le elités celtiche degli ultimi cinque secoli a.C., sono ben documentati in Italia, nella regione padana e lungo l’Adriatico, nel territorio piceno e umbro, la dove la tradizione colloca i Sènoni, gli ultimi Celti a stabilirsi nella penisola. Nella regione, gli esempi non mancano, come indicano i ricchi corredi messi alla luce alla fine del XIX secolo a Montefortino. Gli usi funerari praticati a Serra Sant’Abbondio evocano di più i costumi, in apparenza più sobri, caratteristici di alcuni

gruppi delle Marche settentrionali, come Piobbico, che quelli dei ricchi complessi di Montefortino e Filottrano (caschi e vasellame in bronzo). Una storia insomma avvincente e ammirare da vicino i reperti esposti, evoca le vicende di quegli uomini che si resero protagonisti della quotidianità in un territorio estremamente vivace.

( Da turismoitalianews.it articolo originale: Giovanni Bosi, Serra Sant’Abbondio / Marche)

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Da visitare nei d’intorni :

https://www.turismoitalianews.it/abbiamo-visto-per-voi/14162-da-sentinum-a-sassoferrato-nel-museo-archeologico-i-reperti-raccontano-l-antica-battaglia-delle-nazioni-dei-romani

LA CARICA DELLE TRECENTO MONETE ROMANE TROVATE A S.BASILIO NEL POLESINE

ARIANO NEL POLESINE –

 Una moneta con l’effige dell’ imperatore Triboniano Gallo; è il ritrovamento più importante fatto dalla squadra dell’Università di Padova durante la nuova campagna di scavi che si sta concludendo nella villa romana a San Basilio.

Una moneta di Treboniano Gallo

A darne notizia è la professoressa Caterina Previato, direttrice scientifica dello scavo, durante la seconda e ultima visita guidata nell’ambito di “Scavi aperti”, l’iniziativa promossa dal Consorzio Deltapoolservice in collaborazione con le guide di Co.Se.Del.Po.

Una ricognizione, quella che è iniziata il 23 maggio scorso, che rientrava in un progetto congiunto dell’Università, della Soprintendenza Abap (Archeologia belle arti e paesaggio) di Verona, Rovigo e Vicenza con il supporto della Fondazione Cariparo. «È una di quelle occasioni che permettono di riscoprire la storia di questo territorio – ha sottolineato Sandro Vidali, assessore di Ariano nel Polesine che ha accompagnato i visitatori – Per i prossimi tre anni sono in programma altre campagne: due sono legate sempre alla Villa romana mentre un’altra riguarda i legami con gli etruschi. Grazie ad un finanziamento Gal siamo inoltre riusciti a ripristinare le vetrine del centro turistico e con il dipartimento di Archeologia classica dell’Università di Padova si mira a creare una sorta di museo immersivo».

GLI SCAVI DEL 2022

Ad accompagnare i partecipanti sono state Stefania Paiola di Studio D e Mara Santarato di Co.Se.Del.Po mentre la professoressa Previato ha illustrato il lavoro svolto. Una visita avvincente, che ha permesso di entrare fisicamente nella zona degli scavi e vedere quel che resta della cosiddetta “Villa romana” che si trovava proprio lungo la Via Popilia, che collegava Rimini ad Altino

NUMEROSI RITROVAMENTI

Sono stati numerosi i ritrovamenti che adesso saranno esaminati più a fondo. Gli archeologi hanno trovato elementi decorativi in marmo bianco di cui alcuni pregiati provenienti dall’Asia minore e resti di anfore che lasciano presagire come a San Basilio arrivassero prodotti dal Nordafrica, dal mar Egeo e dall’area padana. E poi tanti resti di ceramiche, vetri, frammenti di vita quotidiana come pesi da pesca, chiavi e spilloni e tante monetine in bronzo tra cui una più grande con – appunto – l’effige dell’imperatore Treboniano, che regnò tra il 251 e il 253 dopo Cristo. «Si tratta di una moneta molto rara, dato che questo imperatore ha regnato solo due anni. Quelle piccole ci hanno fatto gioire per la grande quantità in cui le abbiamo trovate, ma questa è importante per qualità» – ha spiegato ai visitatori la docente universitaria.( Da il gazzettino.it)

Da archeoreporter:

Scavi archeologici a San Basilio, fra Etruschi e Veneti nel Delta del Po – Il video degli scavi “in diretta”

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GLI SCAVI DEL 2020

La terra su cui si ergeva la Grande Quercia di Dante, in territorio di San Basilio, nel Delta Veneto del Po, continua a far emergere altre testimonianze della sua millenaria storia”. Lo spiega il comunicato stampa di studio Esseci.

“Da San Basilio non transitò solo Dante, naturalmente. All’epoca del passaggio del Divin Poeta qui sorgeva un romitorio collegato all’Abbazia di Pomposa e poco più. Ben diverso era l’aspetto di questo lembo del Delta, oggi lontano chilometri dal mare. Le Dune fossili, sui cui sorge la chiesetta romanica di San Basilio, un tempo delimitavano il mare. Il porto che qui era attivo dialogava con quelli di Adria e di Spina nella gestione dei traffici nel mondo allora conosciuto”.

In epoca romana da qui transitava la Via Popillia che, attraverso Adria, congiungeva Rimini all’importante colonia romana del Nord Italia, Aquileia, protesa verso le ricchezze del Norico. Proprio a San Basilio è da identificare la stazione di posta e cambio cavalli, la /mansio Hadriani/, segnalata nella Tabula peutingeriana, la più antica carta stradale romana conosciuta. E magnifici sono i resti di una lussuosa villa romana e di un battistero paleocristiano ancora visitabili in un’area musealizzata nei pressi della chiesetta”.

“Ma l’attenzione degli archeologici ha, da qualche anno, puntato sulla San Basilio ancora precedente, quella presente in epoca etrusca. Gli scavi che in questi mesi sono in corso a cura delle Università di Venezia e di Padova, insieme alla Soprintendenza di territorio e al Museo archeologico nazionale di Adria, stanno delineando la presenza di un sito di una certa importanza già prima dei noti insediamenti romani”.

Alberta Facchi, Direttore del Museo di Adria, dove sono conservati diversi manufatti provenienti dal territorio di San Basilio, sottolinea come da queste ultime indagini sia emerso un dato affatto prima scontato. Ovvero la possibile continuità tra l’insediamento etrusco e quello romano, senza che, come si pensava in passato, ci sia stata una interruzione temporale tra la presenza etrusca, documentata dallo scorcio del VII secolo, e quella romana del II sec. a.C. Benché costruito con materiali locali che poco si conservano nel corso dei secoli (anche gli scavi recenti hanno restituito solo strutture in legno e argilla), l’insediamento etrusco di San Basilio riveste importanza particolare per il fatto che sembra essere il più antico punto di approdo dei naviganti greci della età del ferro in questa area, una ventina di anni prima di Adria”.

“E’ qui che si sperimenta per la prima volta quella presenza multiculturale di genti venete, etrusche e di naviganti greci, che qui convergevano al fine di commerciare. Come nella vicina Adria, anche a San Basilio i Greci scambiavano i prodotti di lusso provenienti dal Mediterraneo, tra cui il vino e pregiati unguenti profumati, con i prodotti della pianura, i metalli dell’Oltralpe e la preziosa ambra del Baltico”.

“Gli scavi recenti consentono quindi di ipotizzare che il sito non fu offuscato e cancellato dalla nascita della vicina Adria (che nel VI secolo divenne una vera e propria città ), ma mantenne un ruolo nel sistema di commercio tra Etruschi e Greci. Questo ruolo e le sue modalità di sviluppo che i prossimi scavi e le tesi di laurea ad essi connessi si prefiggono di indagare.
Il progetto di scavo a San Basilio, realizzato con il sostegno congiunto della Fondazione Cariparo e del progetto Interreg Value, E’ stato sospeso per quest’anno a causa dell’emergenza Covid 19. Riprenderà nella primavera 2021 con il suo duplice volto di indagine scientifica e operazione di turismo partecipativo”.

(fonte: polesine24.it)

Il” Museo” di San Basilio

UNA FORNACE ROMANA A PIACENZA

L’anima romana della città di Piacenza, fondata nel 218 a.C., rivive attraverso una nuova area archeologica – situata in via Trebbiola – che da oggi sarà visitabile dai piacentini. Il tutto in occasione della giornata di apertura del Festival Piacenza Romana.

Si tratta di una fornace di epoca romana-repubblicana perfettamente conservata (dedicata alla produzione di ceramica), oltre a due tratti di mura paralleli tra loro, uno databile al III sec. d.C., l’altro tra la fine del V secolo è l’inizio del VI sec. d.C. Conclude il complesso archeologico un ampio cortile pavimentato in cotto di epoca tardi rinascimentale, resecato dalle scuderie di Palazzo Madama.

I lavori sono costati 50mila euro di fondi ministeriali e hanno comportato tre differenti operazioni: nuova illuminazione per rendere visibili le porzioni di mura emerse, restauro della fornace e interventi di scavo archeologici.

I DETTAGLI SUGLI SCAVI DI VIA TREBBIOLA

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Da libertà.it

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LA FORNACE ROMANA DI BETTOLA

Scoperta fortuitamente nel 1975 e scavata nel 1976 dalla Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna,   in posizione collinare, in area boschiva, in località Piancavallo di Bettola (PC), si trova una fornace di epoca romana, di tipo verticale a pianta quadrangolare con camera di combustione a corridoio centrale (tipo Cuomo di Caprio IIB), una tipologia documentata in Emilia Romagna, già pubblicata a suo tempo (Mirella Marini Calvani, Una fornace romana su un’altura della val Nure presso Bettola (PC), ASPP, IV,XXIX, 1977, pp.427-433).


Bettola – La fornace romana per laterizi (foto Roberta Conversi © 2011)

La fornace fu costruita su uno sbancamento di un lieve pendio. La camera di combustione era interrata e il prefurnium, con copertura a volta è stato trovato al momento dello scavo, ancora sigillato.
Il corridoio centrale della camera di combustione è coperto a volta da dieci archetti a tutto sesto, realizzati in mattoni a sezione cuneiforme. E’ancora conservato il piano forato che separa le due camere.
La camera di cottura, ancora ben conservata è stata realizzata parzialmente interrata. Ad essa si accedeva dal lato opposto a quello del prefurnium.
I numerosi frammenti di materiale ritrovato e la tipologia della fornace consentono di dire che si tratta di una fornace per la produzione di laterizi, d’epoca romana, databile tra la fine del I sec. a.C. e la prima metà del II sec. d.C. Lo scavo ha messo in luce l’intero manufatto che è stato conservato a vista, dotato di una tettoia protettiva di copertura e di una recinzione, con cancello d’accesso, realizzati dalla Soprintendenza.
All’interno dell’area archeologica recintata sono stati collocati pannelli informativi ed identificativi del manufatto.
L’area archeologica è stata infatti predisposta a suo tempo per la valorizzazione e la fruizione del pubblico.


Pianta generale della fornace romana di Bettola (PC)

La Soprintendenza in collaborazione con il Comune di Bettola nella persona del Sindaco Simone Mazza, con l’Associazione di volontariato A.I.N.A. Associazione Internazionale Nucleo Ambientale AINA con sede a Bettola, convenzionata col Comune

LE PITTURE RUPESTRI IN VAL D’OSSOLA

Una  scoperta straordinaria che ha fatto dell’Ossola il punto di riferimento più importante delle Alpi circa le testimonianze di pitture rupestri preistoriche. ai primi di maggio del 2012 due studiosi del Gruppo archeologico di Mergozzo, Elena Poletti e Alberto De Giuli.

scoprirono il «tesoretto» ovvero una roccia sulla quale spicca un complesso di pitture realizzate in ocra rossa che si estendono per circa sei metri e sarebbero state realizzate, secondo una prima valutazione, tra il 5000 ed il 1200 prima di Cristo. Le pitture si trovano sotto una balma, lastra di roccia rivolta verso l’interno che fa da protezione, battezzata «la balma dei cervi». Il sito è in una posizione impervia, difficile da raggiungere, ma dal quale è possibile godere un panorama mozzafiato. Ed è forse per questo che chi l’ha individuato per primo, gia nel 2010, è stato Livio Lanfranchi, un cacciatore. «Si può dire – racconta Poletti – che questa scoperta è avvenuta nell’ambito del progetto interreg Sitinet, un censimento di siti archeologici e geologici, che si sta svolgendo sotto la regia della Provincia. Stavamo facendo dei rilievi in montagna quando siamo stati avvicinati da Lanfranchi che ci ha messo al corrente di queste pitture che aveva visto».

Dopo qualche tempo i due archeologi, acompagnati dal cacciatore, sono andati sul posto. Un sito del quale, fino a quando la Sovrintendenza dei beni ambientali non troverà le modalità per proteggerlo, non verrà svelata la posizione. «E’ stato un momento di grande emozione – spiega Poletti – quando abbiamo visto queste pitture e abbiamo capito che si trattava di una cosa di portata notevole. Lo si capiva dai pigmenti mineralizzati con cui queste figure erano state disegnate. C’erano altre persone con noi. De Giuli ed io ci siamo guardati in faccia ma non ci siamo detti niente perché temevamo che si diffondesse la notizia in maniera incontrollata».

Rivela sorridendo Poletti: «Ho pensato davvero che questa sia stata la scoperta della vita. Sulle Alpi testimonianze di questa entità non ce ne sono. C’è il piccolo dipinto del cervo all’Alpe Veglia e la composizione di figure umane alla Rocca di Cavour in provincia di Torino. Ma sono poca cosa al confronto». Aggiuge l’archeologa: «Qui si tratta di 37 figure maschili e femminili che si estendono per una lunghezza di 6 metri. E’ un vero e proprio unicum per le Alpi al punto di potere accostare questo complesso alle aree di pittura rupestre dei Pirenei o del Levante Spagnolo. E proprio perché assomigliano a queste ultime fanno pensare che siano collocabili agli anni che vanno dal 5000 al 1200 prima di Cristo». Ora toccherà alla Sovrintendenza, in accordo con la Provincia, definire i percorsi che riguardano la messa in sicurezza e le modalità di fruizione del sito. (Da La stampa)

https://youtu.be/pIww1y-GHFk

http://www.balmadeicervi.it/BDC_museum_door.php

https://www.academia.edu/45651951/La_Balma_dei_Cervi_a_Crodo_Campagna_di_documentazione_di_ricerca_e_attivit%C3%A0_di_valorizzazione_in_un_riparo_con_pitture_rupestri_preistoriche

https://www.academia.edu/61518715/Le_pitture_rupestri_della_Valle_Antigorio_VB_e_la_valorizzazione_dei_siti_archeologici_fragili

A PRANZO CON I GALLI DELLA CISALPINA

DA ACADEMIA.EDU

“Tramandano che un tempo i Galli, circondati dalle Alpi come da un muro
inespugnabile, ebbero questa motivazione per riversarsi in Italia la prima
volta: poiché un certo Elicone, della tribù degli Elvezi, dopo aver dimorato
a Roma per esercitare il mestiere di fabbro, ritornando nella propria terra
avrebbe portato con sé fichi, uva passa, olio e vino. Bisogna quindi perdonarli
se decisero di procurarsi questi beni anche con la guerra”

(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XII, 5)

Celti talvolta organizzano durante i loro banchetti dei veri duelli. Sempre armati nelle loro riunioni, si dedicano a dei simulacri di combattimento e lottano tra di loro a mani nude; arrivano tuttavia talvolta fino alle ferite, si irritano allora e se qualcuno non li separa arrivano ad uccidersi. Nei tempi antichi quando era servito un cosciotto o un prosciutto, il più valoroso se ne attribuiva la parte superiore; se un altro desiderava prenderlo, avveniva tra i due contendenti un combattimento a morte … Quando i convitati sono numerosi si seggono in circolo mentre il posto nel mezzo è riservato al personaggio più importante … colui che si distingue tra tutti per la sua abilità in guerra, per la sua nascita o per le sue ricchezze. Presso di lui siede il suo ospite e, alternativamente sulle due ali, tutti gli altri secondo il loro rango. Dietro si tengono i valletti d’armi che portano lo scudo e di fronte i portatori di lance: seduti in cerchio come i loro padroni, fanno festa nello stesso tempo. I servi fanno circolare le bevande in vasi di terracotta o d’argento … i piatti su cui sono disposte le vettovaglie sono dello stesso genere, talvolta in bronzo, altre volte in legno e vimini intrecciato. La bevanda servita dai ricchi è il vino d’Italia o della regione massaliota: lo bevono puro o, più raramente, mescolato con un po’ d’acqua; presso coloro che sono meno abbienti, si usa una bevanda fermentata a base di frumento e di miele; presso il popolo la birra che chiamano korma. Bevono dalla stessa coppa, a sorsi piccoli … ma frequenti.”

Posidonio, Storie, XXIII ( da Terrataurina.it)

La ricostruzione proposta di seguito si basa dunque sulle poche fonti scritte
e attinge invece più ampiamente alla documentazione archeologica, con
particolare riferimento ai territori abitati da Insubri e Leponzi, corrispondenti
al cuore della regione che i Romani definirono Transpadana, e che attualmente
comprende la Lombardia e il Piemonte orientale1

LINk :

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