TESTA DI MINERVA DA PALAZZO PIGNANO
da ” La provincia di Cremona”
Il ritrovamento risale a sei mesi fa, ovvero in concomitanza con l’ultima campagna di scavi effettuata dagli archeologi della Cattolica nell’area della villa tardo romana. Ma l’ufficializzazione è stata data solo ieri da Furio Sacchi docente responsabile delle ricerche, in accordo con la sovrintendenza ai beni culturali e artistici di Cremona e Mantova. Informata ovviamente anche l’amministrazione comunale. Una testa di Minerva, dea della giustizia e della saggezza, è stata rinvenuta dagli studenti del professor Sacchi.
Un ritrovamento assolutamente raro considerando l’epoca della villa, giunta al suo apice ormai in pieno cristianesimo, era il IV-V secolo dopo Cristo. Un tale simbolo pagano non si sa come è scampato alla distruzione, all’oblio. Com’era solito avvenire il marmo, il materiale di cui è fatta la testa, si recuperava per altre costruzioni. A maggior ragione se rappresentava una divinità che doveva essere cancellata dalla memoria per affermare la nuova religione. Dopo alcuni mesi di indagini e verifiche Sacchi, che insegna archeologia classica in Cattolica, e il suo team hanno potuto affermare con certezza che si trattava di un reperto molto più antico rispetto alla datazione della villa, centro agricolo autosufficiente che rappresenta una testimonianza fondamentale della presenza romana nel Cremasco.
Dopo il restauro la testa verrà esposta nell’Antiquarium, il piccolo museo a poche decine di metri dagli scavi e dalla pieve di San Martino, che ospita i reperti emersi in questi decenni dall’area archeologica. Da quanto è emerso dagli studi condotti sul ritrovamento, la statua della dea doveva misurare circa un metro, un metro e venti centimetri di altezza. Probabilmente non era sola, ma faceva parte di un ciclo di sculture. E’ stata ritrovava a fianco dei resti della grande sala absidata della villa. Magari era una scultura destinata a un luogo di studio, essendo appunto minerva dea della saggezza e della giustizia, ad esempio una biblioteca.
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VENETI :SACRIFICI UMANI O ESECUZIONI ?
Lo dicono a mezza voce, da studiosi seri vanno con i piedi di piombo e si limitano a parlare di ipotesi, suggestioni che dovrebbero essere supportate da riscontri e da un rosario di elementi oggettivi che oggi non ci sono. Ma il dato di partenza nudo e crudo legato allo scavo e all’analisi di alcune tombe della necropoli preromana di Padova (VII-VI secolo AC) apre la strada al dubbio: quei corpi sepolti in modo totalmente differente dagli altri, rannicchiati, in un paio di casi con le mani che sembrano legate, possono essere riconducibili a una situazione punitiva? Ovvero, veneti del primo millennio avanti Cristo che erano stati condannati a morte o peggio vittime di sacrifici umani?
Abbiamo alcune situazioni su cui al massimo possiamo coltivare un sospetto – spiega Giovanna Gambacurta, professore associato di Etruscologia e Archeologia italica a Ca’ Foscari – per l’anomalia che presentano alcune sepolture a inumazione (peraltro nel complesso poche a fronte della gran parte a incinerazione, ndr). In pochissimi casi abbiamo trovato gli scheletri scomposti, apparentemente gettati nella tomba senza cura, con mani e piedi legati. Certamente sepolture diverse dalle altre, che dimostravano invece attenzione per la posizione del corpo nella classica postura con le mani giunte sul petto o lungo il corpo e per la disposizione degli arredi funebri del sepolto. Supponiamo che possano essere riconducibili a situazione di sacrificio o punizione, ma sappiamo poco o nulla di questa società per poter arrivare a certezze di qualche tipo e non abbiamo prove per sostenerlo. Noi archeologi non viviamo di certezze…».
LE RIVELAZIONI
Un passo indietro: stiamo parlando di quanto stanno rivelando le tombe prelevate agli inizi degli anni ‘90 dalla necropoli tra via Tiepolo e via San Massimo a Padova e incassonate in un magazzino della città, dove da trent’anni a questa parte – peraltro con un lunghissimo periodo di stop – proseguono i lavori di scavo, analisi e restauro degli oggetti funerari. La storia di questo intervento è in parte legata al percorso della professoressa Gambacurta, giovane collaboratrice della Soprintendenza quando l’area in parola fu interessata dai lavori per la costruzione di un edificio dell’Esu di Padova. «Nella consapevolezza che si trattava di un’area archeologica di estrema importanza nel cuore della città – ricorda la professoressa – si procedette prima alla scavo di alcune tombe e poi alla rimozione della gran parte per sistemarle in un magazzino e procedere con calma all’analisi successiva» In sostanza, vennero prelevate vere e proprie grandi zolle di terra con all’interno le tombe (solitamente più di una per ogni cassone) .
Dopo una prima fase di lavori i cassoni sono rimasti per anni “dimenticati” fino a quando nel 2016, arrivata in cattedra a Ca’ Foscari, Giovanna Gambacurta si è messa in testa di tornare a lavorare su quelle tombe dei nostri antenati. «C’erano ragioni di studio importanti – ricorda – ma parallelamente la possibilità di fare didattica dando agli studenti la possibilità di lavorare “sul campo”. Ho avuto il supporto dell’Università di Ca’ Foscari, massima collaborazione dalla Soprintendenza di Padova, l’attenzione di Comune e Regione. Una bella sinergia che ha prodotto risultati importanti: a oggi sono stati esaminati 57 cassoni su 75 e 97 tombe su 120».
L’AIUTO DALLA TAC
E tante eccellenze si sono messe a disposizione per ricavare il meglio. «Rispetto agli studi dei primi anni ‘90 abbiamo potuto far leva sulle nuove tecnologie – spiega Gambacurta – grazie ad esempio alla collaborazione con l’Azienda ospedaliera universitaria patavina: attraverso analisi di antropologia fisica e sfruttando la Tac sappiamo ad esempio cosa troveremo all’interno delle tombe e dei recipienti. E ora è tutto informatizzato per effetto del lavoro di un centro di eccellenza come quello di Ca’ Foscari, che ci consente di andare avanti anche con l’idea di ricostruire digitalmente il villaggio».
Proprio perché poco si sa della civiltà degli antichi veneti preziosissime sono le informazioni che arrivano dallo studio della necropoli su una società basata sull’organizzazione delle famiglie. «E’ di straordinario interesse – evidenzia l’archeologa – rilevare come seppellivano, cosa mettevano nella tomba e come aggregavano. Come abbiamo detto quasi tutti i corpi erano cremati, sbarrando quindi la strada all’analisi del Dna. Ma anche qui l’evoluzione della ricerca ci ha dato una mano e l’analisi dei residui basata sugli isotopi dello stronzio ha permesso di capire se il corpo sepolto era nato e cresciuto a Padova o era quello di un forestiero». Una sorta di identikit della composizione delle più antiche famiglie di Padova, pure per molti aspetti rivelatrice. «Le sepolture erano per gruppi, sorta di tombe di famiglia. Ebbene la ricerca ha evidenziato che tra i sepolti di una stesso gruppo familiare spesso c’era uno “straniero”, aggregato di fatto a quel determinato ceppo, con un riscontro collegato anche agli oggetti del corredo funebre che ne certificano l’origine non autoctona. Una prova che attraverso il corridoio delle Alpi Padova integrava i forestieri». Già, ogni epoca ha i suoi migranti. ( Fonte il gazzettino artico di T. Graziottin)
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IL DOLIO DELLE MERAVIGLIE DI BOLOGNA
Il Museo Civico Archeologico di Bologna presenta una nuova esposizione del Ripostiglio di San Francesco, un importante deposito dell’Età del Ferro in Italia. Dal 11 febbraio al 6 aprile, il museo ospiterà il ciclo di conferenze, visite guidate e laboratori “Il dolio delle meraviglie”, focalizzati sul valore straordinario di questo reperto, definito “importante per la storia di Bologna, soprattutto dal punto di vista archeologico” da Eva Degli Innocenti, direttrice del settore musei civici del capoluogo emiliano.
La scoperta del Ripostiglio avvenne nel 1877 da parte dell’archeologo Antonio Zannoni nella Basilica di San Francesco, dove venne ritrovato un grande vaso di terracotta, noto come “dolio”, contenente circa 14 quintali di 14.841 oggetti metallici, tutti accuratamente catalogati. Questi reperti, che risalgono dalla fine dell’Età del Bronzo agli inizi del VII secolo a.C., includono armi, oggetti ornamentali, utensili, frammenti di vasellame e altro ancora.
Per rendere l’esposizione accessibile al pubblico, saranno esposti solo 3.500 pezzi, suddivisi per tipologia e serie, con un intervento di riqualificazione dell’illuminazione e dell’allestimento della Sala Xb del Museo. Il nuovo allestimento è stato reso possibile grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna, della Fondazione Luigi Rovati di Milano e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.
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SPUNTA UNA STATUA NELLE CAMPAGNE DI ALTINO
Ad un primo sguardo sembrava un blocco di pietra qualunque, ma poi, guardando meglio, si vedeva invece la forma di una testa, con il volto dai tratti ben conservati e un curioso copricapo con una punta ricurva. La segnalazione giunta alla Soprintendenza archeologia,belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna e ai carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale di Venezia ha fatto scattare i sopralluoghi degli archeologi, che hanno subito compreso l’eccezionalità della scoperta.
Il recupero è stato affidato dalla Soprintendenza, in collaborazione con la direzione regionale Musei Veneto, agli archeologi della ditta Malvestio di Concordia Sagittaria, che ha proceduto a un vero e proprio piccolo scavo stratigrafico, necessario per comprenderne il contesto e recuperare materiale datante. Si tratta di una scultura sostanzialmente integra, che raffigura un personaggio maschile seduto su una roccia, con il busto proteso in avanti e la schiena curva. Con un braccio si sostiene appoggiandosi sulle ginocchia, con l’altro mantiene il colletto della veste, avvolgente e dal raffinato panneggio. Il personaggio indossa inoltre un ampio mantello, che sulla testa assume la forma appuntita del tipico berretto frigio. E’ triste, perché sta partecipando al dolore per la scomparsa della persona seppellita nel monumento funerario di cui faceva parte.
La pertinenza a un importante mausoleo è indiziata anche dalla posizione del ritrovamento: nelle vicinanze del tracciato dell’antica via Annia, lungo la quale – come lungo tutte le strade periurbane in età romana – si distribuiva la necropoli della città. Due i prossimi passi da parte degli esperti della Soprintendenza e della direzione regionale Musei: studiare approfonditamente reperto e contesto di rinvenimento e metterlo a disposizione del pubblico in uno degli spazi espositivi del Museo di Altino. ( da Veneziatoday.it)
EDIFICI ROMANI IN PROVINCIA DI FERRARA
Da stilarte.it
A seguito degli interventi di scavo a Ostellato per la posa della nuova condotta idrica su via dei Lidi ferraresi, da parte di CADF La fabbrica dell’acqua, sono stati portati alla luce interessanti resti del periodo romano. Lo ha comunicato ora il Mic – Segretariato Regionale per l’Emilia-Romagna. Ostellato (Ustlà in dialetto ferrarese) è un comune di 5 595 abitanti della provincia di Ferrara in Emilia-Romagna. Fa parte dell’Unione dei comuni Valli e Delizie.
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