FELSINA LA BOLOGNA ETRUSCA.

La città di Bologna è l ‘antica città etrusca di FELSINA . La città è definita “princeps Etruriae” da Plinio il Vecchio, che le riconosce evidentemente un ruolo primario anche in età antica . Il luogo occupato da Bologna antica, ricoperto dalla città moderna, sfruttava una posizione favorevole allo sbocco del Reno in pianura ma a ridosso del Colle dell’Osservanza.

I sondaggi effettuati nel centro moderno tendono a riconoscere un’occupazione ri- salente già all’VIII secolo a.C., strutturata per villaggi, posti in prossimità delle necropoli; non ancora chiara è invece la posizione del villaggio di IX secolo, corrispondente alle necropoli di San Vitale e Savena, a est della città.

Dall’unione dei primitivi villaggi nacque FELSINA , coagulandosi attorno a un unico centro. Di questo periodo sono i rinvenimenti di fornaci e fonderie. L’economia si basava essenzialmente sull’agricoltura e sull’allevamento. Tali fonti permettevano il commercio con Spina collegata a Bologna tramite il corso del Reno. Spina aveva forse un ruolo di dipendenza nei confronti di Bologna, infatti una stele funeraria di tardo V secolo aC conserva la figura di un navarca con un piccolo esercito sul suo vascello. Altra area significativa è costituita dal santuario di Villa Cassarini (tardo VI-IV secolo a.C.), . Di gran lunga più imponenti sono i materiali provenienti dalle necropoli, che hanno permesso una periodizzazione della cultura dell’età del ferro che è servita di modello agli studi villanoviani.

Dopo il villanoviano 1, attestato nei sepolcreti di S. Vitale e Savena (IX secolo aC), con lo spostamento verso la zona occidentale, si svilupperá la futura Bologna con forme classificate nel villanoviano II (prima metà dell VIII secolo a.C) e III (seconda metà del I’Vill, prima metà del VII secolo a.C.).

Si riscontra una continuità culturale con la fase precedente attestata dal rito funerario dell’incinerazione, dall’ossuario biconico, da ornamenti personali in bronzo. Alcuni oggetti preziosi dimostrano una differenziazione delle classi agiate. Particolare significato assumono le tombe di “guerrieri”, con repertorio di armi, e di “cavalleri”; entro le quali sono depositati morsi di cavallo. Il periodo successivo, dalla metà del VII alla metà del VI secolo aC. (impropriamente denominato villanoviano IV), corrisponde alla massima espansione demografica di Felsina.

Sono evidenti ricche importazioni dall’E- truria interna, che continuano un flusso già iniziato nel villanoviano III (ceramica groca geometrica), in particolare per quanto concerne la bronzistica decorata, le oreficerie a le prime manifestazioni a li- vallo monumentale di stele decorate a bassorilievo (definite “protofelsinee”) con motivi orientalizzanti. Fra la metà del VI e la metà del IV secolo a. C. le necropoll, addensate fondamen tamente attorno alla Certosa, presentano sepolcri a pozzetto e a fossa con paramento lapideo (unica eccezione la tomba a cassone costruita a biocchi del Giardini Margherita), frequentemente segnalati da cippi o da stele a forma di ferro di cavallo, decorate a rilevi, con motivi riferiti in parte all attività del defunto, in parte al repertorio del viaggio l’oltretomba, e provvisti di iscrizionei nella quale è pre sente anche il nome del magistrato locale zilach magistrato. I servizi da banchetto rinvenuti nelle tombe presentano ora molta ceramica greca, in prevalenza attica a figure nere e rosse che dimostrano fondamentalmente l’approvvigionamento d beni dall’emporio spinetico Fra il 520 380 a.C Bologna è fra le maggiori acquirenti di tali prodotti , che si condensano soprattutto fra 475 425 aC. che di bronzi provenienti dall’Etruria meridionale con la quale rapporti sembrano gradatamente attenuarsi . Le tombe del periodo cosiddeto gallico (350-189 aC), prevalentemente a inumazione, sostituiscono alla ceramica attica a figure rosse quela proveniente dalle officine volterrane. La discesa dei Celti trovò in Bologna il centro insediativo più importante: i Galli Boi che vi si stanziarono lasciarono come eredità il nome di Bononia e scardinarono verosimilmente il sistema abitativo dell’asse del Reno, distruggendo Marzabotto e relegando l’emporio di Spina a funzioni di centro minore.( Rielaborato da dizionario della civiltà etrusca -M.Cristofani.ed Giunti)

Eccoci:

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ALEA JACTA EST! SULLE TRACCE DI CESARE LUNGO IL RUBICONE

UNA NUOVA IPOTESI SUL PERCORSO DI CESARE PRIMA DI ATTRAVERSARE IL RUBICONE.

Statua di Cesare sul Rubicone

Ha letto e riletto per anni gli scritti degli storici antichi e degli studiosi moderni, ma soprattutto ha analizzato i segni rimasti sul suolo, in particolare quelli della centuriazione d’epoca romana, e ha ragionato sulle mappe e sulle strategie militari. Alla fine, Giancarlo Brighi, acuto cultore cesenate del passato remoto, ha ricostruito così in modo dettagliato quello che probabilmente fu il percorso che Giulio Cesare fece durante il suo celebre attraversamento del fiume Rubicone. Un avvenimento che spalancò le porte alla caduta della Repubblica di Roma e al successivo avvento dell’Impero.

Colonna che segna il punto in cui secondo la tradizione Giulio Cesare pronuncia la frase Alea iacta est



La tesi di Brighi, minuziosamente argomentata e affascinante e spiegata in un libro che sarà presentato questa mattina alle 10 al circolo Endas di Ronta, è che sia di corto respiro una visione fissata in modo statico sul corso d’acqua del “dado è tratto”, attorno a cui esistono eterne dispute tra chi lo individua nel Pisciatello-Urgon cesenate, nel Rubicone-Fiumicino di Savignano o nell’Uso santarcangiolese. In realtà – sostiene Brighi – tra la zona di Ravenna nella Gallia Cisalpina e quella di Rimini, che era il limes dell’Italia romana, esisteva una sorta di “terra di nessuno”, a forma di triangolo rettangolo, che era una «trappola idraulica», cioè una zona allagabile con funzioni di difesa da possibili invasioni. E il fulcro di questa zona cuscinetto era Cesena, una piazzaforte in posizione rialzata rispetto al terreno inondato attorno, che sarebbe diventata un passaggio obbligato e quasi imprendibile per chi voleva evitare le sorvegliate vie consolari.
Sul lato nord-ovest questa area strategica aveva come perimetro il Savio, nel suo originario tracciato, poi modificato, che coincideva più o meno con l’attuale rio Granarolo. All’estremità sud-est c’era invece lo storico Rubicone al centro della vicenda più famosa dell’epopea cesariana, che Brighi identifica col Pisciatello, pur con un tracciato un po’ differente da quello odierno. È tra questi due «confini distinti e distanti» che fu lanciata la sfida alla Roma del Senato e di Pompeo.

Secondo Brighi, in quel gennaio dell’anno 49 .C. (il 10 secondo la tradizione, o forse l’11), Cesare uscì di sera da Ravenna, ma non si diresse direttamente verso Rimini lungo la via Popilia litoranea, su cui invece inviò alcuni legionari incaricati di simulare una diserzione. Scelse invece la via che conduceva verso le colline di Bertinoro, dove era concentrata metà della sua XIII legione. Poi, appena raggiunta la via Flaminia II, prolungamento ormai in disuso verso nord-ovest della Flamina, aveva intenzione di girare a est per raggiungere Rimini, attraversando la zona neutrale lungo le strade di confine tra la centuriazione cesenate e il territorio cervese. Ma vicino alle saline di Cervia trovò qualche ostacolo, probabilmente una zona allagata, e così fece una deviazione a sud, su terreni asciutti, e si smarrì, come narra Svetonio, forse anche per la nebbia. O magari si nascose? Fatto sta che finì per sbucare in un punto del Rubicone non previsto, usato dai contrabbandieri del tempo. A quel punto, attraversato il corso d’acqua, si incamminò verso la dimenticata Giovedia, località vicino al Rio Salto e all’attuale Torre di Villa Torlonia, a San Mauro Pascoli, per poi raggiungere il ponte di San Vito, sull’Uso. Oltrepassato anche quel torrente, raggiunse Casale e San Martino in Riparotta, vicino al Marecchia, e fu da lì che i suoi legionari piombarono poi su Rimini. Con un vantaggio: provenivano da una direzione che poteva fare pensare che fossero truppe pompeiane amiche arruolate ad Arezzo, in arrivo da là, e quindi ci fu l’effetto sorpresa, che facilitò l’occupazione della città

Il percorso ipotetico di Cesare

Altro link: l’accampamento di Cesare

CELTI SENONI A SERRA S.ABBONDIO

La storia del borgo di Serra S.Abbondio nelle Marche , al pari del suo attuale aspetto è prettamente medievale. Eppure questo borgo nell’alta valle del Cesano, in provincia di Pesaro-Urbino, è stata un tempo la terra dei Celti. Il ritrovamento di lunghe spade e dei relativi foderi in ferro tra i corredi funerari del IV e III secolo a.C. riportati alla luce, hanno consentito di aggiungere Serra Sant’Abbondio tra le località marchigiane in cui compaiono oggetti di tradizione gallica. Ecco allora una raccolta archeologica decisamente da vedere per saperne di più.

Eppure la storia di questo luogo è ben più antica e con protagonisti di tutto rilievo. La sorpresa arriva visitando la raccolta archeologica allestita nel Municipio, fortemente voluta dall’amministrazione comunale e fattivamente sostenuta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche. “Un tentativo di valorizzare ulteriormente un’area dai pregevoli valori naturalistici e ambientali e a forte vocazione turistico-culturale, mettendo a frutto le risorse impiegate nello scavo attraverso la presentazione at pubblico dei dati, anche se al momento solo preliminari, derivanti da queste scoperte – ci dice il sindaco Ludovico Caverni – testimonianze che aggiungono un importante tassello sul passaggio epocale che interessò il territorio marchigiano quando si estese il dominio romano”.

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Dunque i Celti a Serra Sant’Abbondio. E’ la presenza delle lunghe spade e dei foderi in ferro tra i corredi funerari del IV e III secolo a.C. rinvenuti nelle antiche sepolture casualmente tornate alla luce di annoverare questo territorio tra quelli in cui sono spuntati reperti di tradizione gallica. Reperti di grande interesse, quindi, per gli studiosi. “Da tempo il riconoscimento di armi e altri elementi tipici della civiltà di La Tene (nome con cui si indica la cultura archeologica dei Celti nei secoli precedenti la romanizzazione) è stato messo in relazione con lo stanziamento nel territorio della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali di gruppi appartenenti al popolo dei Sènoni – ci spiegano nel corso della visita alla raccolta archeologica – questa tribù faceva parte del grande popolo dei Celti, chiamati Galli dai Romani, provenienti dalle regioni centro-europee a nord delle Alpi.

L’arrivo dei Sènoni sulla penisola italiana si colloca all’inizio del IV secolo a.C., al culmine delle massicce migrazioni the avevano visto numerosi popoli celtici insediarsi in Italia settentrionale”. Una vicenda per certi versi misteriosa e decisamente intrigante: i Sènoni sono infatti ricordati dagli storici antichi come il più turbolento ed irrequieto del popolo dei Celti, e tra i principali responsabili dell’assedio di Roma nel 387-386 a.C., che occuparono indisturbatamente per alcuni mesi. “Questo evento segnò il loro prepotente ingresso nella storia del mondo mediterraneo: da questo momento le fonti storiche mettono in evidenza il peso che acquisirono le popolazioni galliche nello scacchiere politico della penisola italiana intervenendo con contingenti mercenari in favore di tiranni e città” spiegano gli archeologi.

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica
I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Il rinvenimento dei reperti dei Celti è avvenuto in occasione della realizzazione di infrastrutture e di opere di urbanizzazione in un’area tra Pian Santa Maria e Campietro, sulla strada che da Serra Sant’Abbondio conduce a Frontone, con l’individuazione di una piccola necropoli. Lo scavo, diretto da Gabriele Baldelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, durata per più anni, ha consentito di recuperare e studiare una cinquantina di sepolture databili alle ultime fasi dell’età picena e all’epoca romana, che presentano una suggestiva commistione di elementi culturali umbro-piceni, gallici, ed etrusco-romani nella fase di passaggio tra le due età, tra il IV e il III secolo a.C. In quattordici tombe sono state ritrovate armi che fanno pensare: “Se la maggior parte degli individui erano equipaggiati con una semplice lancia, cinque si distinguono per la presenza di una spade di tradizione celtica. Del cinturone non resta spesso che qualche raro anello. Non c’è, invece, nessun indice di armamento difensivo come elmi o scudi. A volte collocate alla testa del defunto, le armi, quasi sempre piegate, erano il più delle volte riposte in corrispondenza delle gambe, mentre le spade e i foderi sono deposti separatamente” raccontano gli studiosi.

Le spade e i foderi, di tipo La Téne, che segnalano le elités celtiche degli ultimi cinque secoli a.C., sono ben documentati in Italia, nella regione padana e lungo l’Adriatico, nel territorio piceno e umbro, la dove la tradizione colloca i Sènoni, gli ultimi Celti a stabilirsi nella penisola. Nella regione, gli esempi non mancano, come indicano i ricchi corredi messi alla luce alla fine del XIX secolo a Montefortino. Gli usi funerari praticati a Serra Sant’Abbondio evocano di più i costumi, in apparenza più sobri, caratteristici di alcuni

gruppi delle Marche settentrionali, come Piobbico, che quelli dei ricchi complessi di Montefortino e Filottrano (caschi e vasellame in bronzo). Una storia insomma avvincente e ammirare da vicino i reperti esposti, evoca le vicende di quegli uomini che si resero protagonisti della quotidianità in un territorio estremamente vivace.

( Da turismoitalianews.it articolo originale: Giovanni Bosi, Serra Sant’Abbondio / Marche)

I Celti a Serra Sant’Abbondio: nel borgo delle Marche le antiche lunghe spade tornate alla luce raccontano la tradizione gallica

Da visitare nei d’intorni :

https://www.turismoitalianews.it/abbiamo-visto-per-voi/14162-da-sentinum-a-sassoferrato-nel-museo-archeologico-i-reperti-raccontano-l-antica-battaglia-delle-nazioni-dei-romani

LA CARICA DELLE TRECENTO MONETE ROMANE TROVATE A S.BASILIO NEL POLESINE

ARIANO NEL POLESINE –

 Una moneta con l’effige dell’ imperatore Triboniano Gallo; è il ritrovamento più importante fatto dalla squadra dell’Università di Padova durante la nuova campagna di scavi che si sta concludendo nella villa romana a San Basilio.

Una moneta di Treboniano Gallo

A darne notizia è la professoressa Caterina Previato, direttrice scientifica dello scavo, durante la seconda e ultima visita guidata nell’ambito di “Scavi aperti”, l’iniziativa promossa dal Consorzio Deltapoolservice in collaborazione con le guide di Co.Se.Del.Po.

Una ricognizione, quella che è iniziata il 23 maggio scorso, che rientrava in un progetto congiunto dell’Università, della Soprintendenza Abap (Archeologia belle arti e paesaggio) di Verona, Rovigo e Vicenza con il supporto della Fondazione Cariparo. «È una di quelle occasioni che permettono di riscoprire la storia di questo territorio – ha sottolineato Sandro Vidali, assessore di Ariano nel Polesine che ha accompagnato i visitatori – Per i prossimi tre anni sono in programma altre campagne: due sono legate sempre alla Villa romana mentre un’altra riguarda i legami con gli etruschi. Grazie ad un finanziamento Gal siamo inoltre riusciti a ripristinare le vetrine del centro turistico e con il dipartimento di Archeologia classica dell’Università di Padova si mira a creare una sorta di museo immersivo».

GLI SCAVI DEL 2022

Ad accompagnare i partecipanti sono state Stefania Paiola di Studio D e Mara Santarato di Co.Se.Del.Po mentre la professoressa Previato ha illustrato il lavoro svolto. Una visita avvincente, che ha permesso di entrare fisicamente nella zona degli scavi e vedere quel che resta della cosiddetta “Villa romana” che si trovava proprio lungo la Via Popilia, che collegava Rimini ad Altino

NUMEROSI RITROVAMENTI

Sono stati numerosi i ritrovamenti che adesso saranno esaminati più a fondo. Gli archeologi hanno trovato elementi decorativi in marmo bianco di cui alcuni pregiati provenienti dall’Asia minore e resti di anfore che lasciano presagire come a San Basilio arrivassero prodotti dal Nordafrica, dal mar Egeo e dall’area padana. E poi tanti resti di ceramiche, vetri, frammenti di vita quotidiana come pesi da pesca, chiavi e spilloni e tante monetine in bronzo tra cui una più grande con – appunto – l’effige dell’imperatore Treboniano, che regnò tra il 251 e il 253 dopo Cristo. «Si tratta di una moneta molto rara, dato che questo imperatore ha regnato solo due anni. Quelle piccole ci hanno fatto gioire per la grande quantità in cui le abbiamo trovate, ma questa è importante per qualità» – ha spiegato ai visitatori la docente universitaria.( Da il gazzettino.it)

Da archeoreporter:

Scavi archeologici a San Basilio, fra Etruschi e Veneti nel Delta del Po – Il video degli scavi “in diretta”

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GLI SCAVI DEL 2020

La terra su cui si ergeva la Grande Quercia di Dante, in territorio di San Basilio, nel Delta Veneto del Po, continua a far emergere altre testimonianze della sua millenaria storia”. Lo spiega il comunicato stampa di studio Esseci.

“Da San Basilio non transitò solo Dante, naturalmente. All’epoca del passaggio del Divin Poeta qui sorgeva un romitorio collegato all’Abbazia di Pomposa e poco più. Ben diverso era l’aspetto di questo lembo del Delta, oggi lontano chilometri dal mare. Le Dune fossili, sui cui sorge la chiesetta romanica di San Basilio, un tempo delimitavano il mare. Il porto che qui era attivo dialogava con quelli di Adria e di Spina nella gestione dei traffici nel mondo allora conosciuto”.

In epoca romana da qui transitava la Via Popillia che, attraverso Adria, congiungeva Rimini all’importante colonia romana del Nord Italia, Aquileia, protesa verso le ricchezze del Norico. Proprio a San Basilio è da identificare la stazione di posta e cambio cavalli, la /mansio Hadriani/, segnalata nella Tabula peutingeriana, la più antica carta stradale romana conosciuta. E magnifici sono i resti di una lussuosa villa romana e di un battistero paleocristiano ancora visitabili in un’area musealizzata nei pressi della chiesetta”.

“Ma l’attenzione degli archeologici ha, da qualche anno, puntato sulla San Basilio ancora precedente, quella presente in epoca etrusca. Gli scavi che in questi mesi sono in corso a cura delle Università di Venezia e di Padova, insieme alla Soprintendenza di territorio e al Museo archeologico nazionale di Adria, stanno delineando la presenza di un sito di una certa importanza già prima dei noti insediamenti romani”.

Alberta Facchi, Direttore del Museo di Adria, dove sono conservati diversi manufatti provenienti dal territorio di San Basilio, sottolinea come da queste ultime indagini sia emerso un dato affatto prima scontato. Ovvero la possibile continuità tra l’insediamento etrusco e quello romano, senza che, come si pensava in passato, ci sia stata una interruzione temporale tra la presenza etrusca, documentata dallo scorcio del VII secolo, e quella romana del II sec. a.C. Benché costruito con materiali locali che poco si conservano nel corso dei secoli (anche gli scavi recenti hanno restituito solo strutture in legno e argilla), l’insediamento etrusco di San Basilio riveste importanza particolare per il fatto che sembra essere il più antico punto di approdo dei naviganti greci della età del ferro in questa area, una ventina di anni prima di Adria”.

“E’ qui che si sperimenta per la prima volta quella presenza multiculturale di genti venete, etrusche e di naviganti greci, che qui convergevano al fine di commerciare. Come nella vicina Adria, anche a San Basilio i Greci scambiavano i prodotti di lusso provenienti dal Mediterraneo, tra cui il vino e pregiati unguenti profumati, con i prodotti della pianura, i metalli dell’Oltralpe e la preziosa ambra del Baltico”.

“Gli scavi recenti consentono quindi di ipotizzare che il sito non fu offuscato e cancellato dalla nascita della vicina Adria (che nel VI secolo divenne una vera e propria città ), ma mantenne un ruolo nel sistema di commercio tra Etruschi e Greci. Questo ruolo e le sue modalità di sviluppo che i prossimi scavi e le tesi di laurea ad essi connessi si prefiggono di indagare.
Il progetto di scavo a San Basilio, realizzato con il sostegno congiunto della Fondazione Cariparo e del progetto Interreg Value, E’ stato sospeso per quest’anno a causa dell’emergenza Covid 19. Riprenderà nella primavera 2021 con il suo duplice volto di indagine scientifica e operazione di turismo partecipativo”.

(fonte: polesine24.it)

Il” Museo” di San Basilio

UNA FORNACE ROMANA A PIACENZA

L’anima romana della città di Piacenza, fondata nel 218 a.C., rivive attraverso una nuova area archeologica – situata in via Trebbiola – che da oggi sarà visitabile dai piacentini. Il tutto in occasione della giornata di apertura del Festival Piacenza Romana.

Si tratta di una fornace di epoca romana-repubblicana perfettamente conservata (dedicata alla produzione di ceramica), oltre a due tratti di mura paralleli tra loro, uno databile al III sec. d.C., l’altro tra la fine del V secolo è l’inizio del VI sec. d.C. Conclude il complesso archeologico un ampio cortile pavimentato in cotto di epoca tardi rinascimentale, resecato dalle scuderie di Palazzo Madama.

I lavori sono costati 50mila euro di fondi ministeriali e hanno comportato tre differenti operazioni: nuova illuminazione per rendere visibili le porzioni di mura emerse, restauro della fornace e interventi di scavo archeologici.

I DETTAGLI SUGLI SCAVI DI VIA TREBBIOLA

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Da libertà.it

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LA FORNACE ROMANA DI BETTOLA

Scoperta fortuitamente nel 1975 e scavata nel 1976 dalla Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna,   in posizione collinare, in area boschiva, in località Piancavallo di Bettola (PC), si trova una fornace di epoca romana, di tipo verticale a pianta quadrangolare con camera di combustione a corridoio centrale (tipo Cuomo di Caprio IIB), una tipologia documentata in Emilia Romagna, già pubblicata a suo tempo (Mirella Marini Calvani, Una fornace romana su un’altura della val Nure presso Bettola (PC), ASPP, IV,XXIX, 1977, pp.427-433).


Bettola – La fornace romana per laterizi (foto Roberta Conversi © 2011)

La fornace fu costruita su uno sbancamento di un lieve pendio. La camera di combustione era interrata e il prefurnium, con copertura a volta è stato trovato al momento dello scavo, ancora sigillato.
Il corridoio centrale della camera di combustione è coperto a volta da dieci archetti a tutto sesto, realizzati in mattoni a sezione cuneiforme. E’ancora conservato il piano forato che separa le due camere.
La camera di cottura, ancora ben conservata è stata realizzata parzialmente interrata. Ad essa si accedeva dal lato opposto a quello del prefurnium.
I numerosi frammenti di materiale ritrovato e la tipologia della fornace consentono di dire che si tratta di una fornace per la produzione di laterizi, d’epoca romana, databile tra la fine del I sec. a.C. e la prima metà del II sec. d.C. Lo scavo ha messo in luce l’intero manufatto che è stato conservato a vista, dotato di una tettoia protettiva di copertura e di una recinzione, con cancello d’accesso, realizzati dalla Soprintendenza.
All’interno dell’area archeologica recintata sono stati collocati pannelli informativi ed identificativi del manufatto.
L’area archeologica è stata infatti predisposta a suo tempo per la valorizzazione e la fruizione del pubblico.


Pianta generale della fornace romana di Bettola (PC)

La Soprintendenza in collaborazione con il Comune di Bettola nella persona del Sindaco Simone Mazza, con l’Associazione di volontariato A.I.N.A. Associazione Internazionale Nucleo Ambientale AINA con sede a Bettola, convenzionata col Comune

LE PITTURE RUPESTRI IN VAL D’OSSOLA

Una  scoperta straordinaria che ha fatto dell’Ossola il punto di riferimento più importante delle Alpi circa le testimonianze di pitture rupestri preistoriche. ai primi di maggio del 2012 due studiosi del Gruppo archeologico di Mergozzo, Elena Poletti e Alberto De Giuli.

scoprirono il «tesoretto» ovvero una roccia sulla quale spicca un complesso di pitture realizzate in ocra rossa che si estendono per circa sei metri e sarebbero state realizzate, secondo una prima valutazione, tra il 5000 ed il 1200 prima di Cristo. Le pitture si trovano sotto una balma, lastra di roccia rivolta verso l’interno che fa da protezione, battezzata «la balma dei cervi». Il sito è in una posizione impervia, difficile da raggiungere, ma dal quale è possibile godere un panorama mozzafiato. Ed è forse per questo che chi l’ha individuato per primo, gia nel 2010, è stato Livio Lanfranchi, un cacciatore. «Si può dire – racconta Poletti – che questa scoperta è avvenuta nell’ambito del progetto interreg Sitinet, un censimento di siti archeologici e geologici, che si sta svolgendo sotto la regia della Provincia. Stavamo facendo dei rilievi in montagna quando siamo stati avvicinati da Lanfranchi che ci ha messo al corrente di queste pitture che aveva visto».

Dopo qualche tempo i due archeologi, acompagnati dal cacciatore, sono andati sul posto. Un sito del quale, fino a quando la Sovrintendenza dei beni ambientali non troverà le modalità per proteggerlo, non verrà svelata la posizione. «E’ stato un momento di grande emozione – spiega Poletti – quando abbiamo visto queste pitture e abbiamo capito che si trattava di una cosa di portata notevole. Lo si capiva dai pigmenti mineralizzati con cui queste figure erano state disegnate. C’erano altre persone con noi. De Giuli ed io ci siamo guardati in faccia ma non ci siamo detti niente perché temevamo che si diffondesse la notizia in maniera incontrollata».

Rivela sorridendo Poletti: «Ho pensato davvero che questa sia stata la scoperta della vita. Sulle Alpi testimonianze di questa entità non ce ne sono. C’è il piccolo dipinto del cervo all’Alpe Veglia e la composizione di figure umane alla Rocca di Cavour in provincia di Torino. Ma sono poca cosa al confronto». Aggiuge l’archeologa: «Qui si tratta di 37 figure maschili e femminili che si estendono per una lunghezza di 6 metri. E’ un vero e proprio unicum per le Alpi al punto di potere accostare questo complesso alle aree di pittura rupestre dei Pirenei o del Levante Spagnolo. E proprio perché assomigliano a queste ultime fanno pensare che siano collocabili agli anni che vanno dal 5000 al 1200 prima di Cristo». Ora toccherà alla Sovrintendenza, in accordo con la Provincia, definire i percorsi che riguardano la messa in sicurezza e le modalità di fruizione del sito. (Da La stampa)

https://youtu.be/pIww1y-GHFk

http://www.balmadeicervi.it/BDC_museum_door.php

https://www.academia.edu/45651951/La_Balma_dei_Cervi_a_Crodo_Campagna_di_documentazione_di_ricerca_e_attivit%C3%A0_di_valorizzazione_in_un_riparo_con_pitture_rupestri_preistoriche

https://www.academia.edu/61518715/Le_pitture_rupestri_della_Valle_Antigorio_VB_e_la_valorizzazione_dei_siti_archeologici_fragili

A PRANZO CON I GALLI DELLA CISALPINA

DA ACADEMIA.EDU

“Tramandano che un tempo i Galli, circondati dalle Alpi come da un muro
inespugnabile, ebbero questa motivazione per riversarsi in Italia la prima
volta: poiché un certo Elicone, della tribù degli Elvezi, dopo aver dimorato
a Roma per esercitare il mestiere di fabbro, ritornando nella propria terra
avrebbe portato con sé fichi, uva passa, olio e vino. Bisogna quindi perdonarli
se decisero di procurarsi questi beni anche con la guerra”

(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XII, 5)

Celti talvolta organizzano durante i loro banchetti dei veri duelli. Sempre armati nelle loro riunioni, si dedicano a dei simulacri di combattimento e lottano tra di loro a mani nude; arrivano tuttavia talvolta fino alle ferite, si irritano allora e se qualcuno non li separa arrivano ad uccidersi. Nei tempi antichi quando era servito un cosciotto o un prosciutto, il più valoroso se ne attribuiva la parte superiore; se un altro desiderava prenderlo, avveniva tra i due contendenti un combattimento a morte … Quando i convitati sono numerosi si seggono in circolo mentre il posto nel mezzo è riservato al personaggio più importante … colui che si distingue tra tutti per la sua abilità in guerra, per la sua nascita o per le sue ricchezze. Presso di lui siede il suo ospite e, alternativamente sulle due ali, tutti gli altri secondo il loro rango. Dietro si tengono i valletti d’armi che portano lo scudo e di fronte i portatori di lance: seduti in cerchio come i loro padroni, fanno festa nello stesso tempo. I servi fanno circolare le bevande in vasi di terracotta o d’argento … i piatti su cui sono disposte le vettovaglie sono dello stesso genere, talvolta in bronzo, altre volte in legno e vimini intrecciato. La bevanda servita dai ricchi è il vino d’Italia o della regione massaliota: lo bevono puro o, più raramente, mescolato con un po’ d’acqua; presso coloro che sono meno abbienti, si usa una bevanda fermentata a base di frumento e di miele; presso il popolo la birra che chiamano korma. Bevono dalla stessa coppa, a sorsi piccoli … ma frequenti.”

Posidonio, Storie, XXIII ( da Terrataurina.it)

La ricostruzione proposta di seguito si basa dunque sulle poche fonti scritte
e attinge invece più ampiamente alla documentazione archeologica, con
particolare riferimento ai territori abitati da Insubri e Leponzi, corrispondenti
al cuore della regione che i Romani definirono Transpadana, e che attualmente
comprende la Lombardia e il Piemonte orientale1

LINk :

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COMACCHIO : IL MUSEO DEL DELTA ANTICO

Il museo del Delta antico a Comacchio è un museo che ti stupisce ; non ti aspetti di trovare tantissimi reperti archeologici così ben conservati da evocare la vita di tante persone. Mi ha veramente stupito la parte relativa ai ritrovamenti navali che evocano la vita quotidiana di marinai e la storia del carico di un’imbarcazione purtroppo naufragata . Ciò purtroppo non era raro nell’epoca romana . Da una tragedia però ne sono scaturite per noi duemila anni dopo tante informazione di quell’epoca lontana che rivive oggi grazie al lavoro di tanti archeologi nelle sale del museo di Comacchio.

La sede del museo a Comacchio nell’ antico ospedale

È stata un’esperienza immersiva in un museo pensato e progettato in maniera moderna, scientificamente accattivante .

Il museo si articola in diverse sezioni:

frammento di capitello romano

nel piano terra è possibile visitare la parte relativa alla storia della città romana sin dall’epoca più antica. Naturalmente la parte più rilevante come dicevamo sopra è quella costituita dalla scoperta di un’antica imbarcazione romana con tutto il suo carico eccezionalmente conservato: sandali,borse di cuoio, corde piccoli attrezzi della navigazione,ceramiche calamai tempietti votivi, nonché una serie di oggetti della messa quotidiana o pronti per essere rivenduti a nei mercati .

LA NAVE ROMANA:

Era un’imbarcazione di notevoli dimensioni (21 x 5 m), ad albero unico e con vela quadrangolare. La tecnica di costruzione, tra le più antiche del Mediterraneo, ha le tavole dello scafo immerso cucite tra loro con corde, mentre quelle della porzione di scafo fuor d’acqua sono commesse a incastro.
La nave, in eccezionale stato di conservazione, conteneva ancora tutto il carico (ceramiche italiche, anfore greche,tronchi di legno di bosso africano, derrate alimentari, 102 lingotti di piombo provenienti dalla Spagna, gli strumenti di governo e di manutenzione, una stadera e dei calamai, attrezzi da cucina, gli oggetti personali e di abbigliamento dell’equipaggio e dei passeggeri, strigili per la cura del corpo e dadi da gioco). Probabilmente a bordo viveva anche una tartaruga portafortuna di cui è stato rinvenuto il carapace.

Di notevole interesse in quanto costituiscono l’unico ritrovamento di questo genere, sono alcuni tempietti devozionali, realizzati con lamine di piombo ottenute a stampo, dedicati a Venere e Mercurio, divinità patrone dei marinai e dei commercianti.

L’intero carico nonché le attrezzature e l’abbigliamento dell’equipaggio sono esposti nel museo; lo scafo della nave al 2021, dopo 40 anni dal ritrovamento, si trova invece ancora in fase di restauro.

Uno dei tempietti votivi recuperati sulla nave

E poi possibile visitare i piani superiori la sezione etrusca ricchissima di vasi sia provenienti dal Attica o dalla Grecia sia vasi classici di produzione etrusca. Commoventi sono anche i corredi con le tombe di antichi abitatori di queste zone. Vi è infine una sezione medioevale e rinascimentale anche questa ben strutturata.

Insomma vi consigliamo assolutamente una visita da queste parti .

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APPROFONDIMENTI:

https://youtu.be/PhbUUK84iZ4

Museo Delta Antico

La Nave Romana di Comacchio, storia del relitto rimosso dal sito dove giaceva da duemila anni, e mai esposto al pubblico.

LA DOMUS DEL LEOPARDO DI FAENZA

Domus leopardo di Faenza

 il mosaico con la raffigurazione del Leopardo è un frammento restaurato da RavennAntica  ed appartiene al pavimento d’un triclinio / sala da pranzo  di una ricca domus , scoperta a Faenza nel 1963.

LA DOMUS

La domus faentina si collocava al centro dell’isolato compreso fra il decumano massimo (via Emilia-via Mazzini) e l’ultimo cardo occidentale, corrispondente all’attuale via Cavour: i vani rinvenuti erano perfettamente in asse con le direttrici stradali.

Domus leopardo di Faenza

Una prestigiosa sala da pranzo era pavimentata con un tappeto musivo policromo e un emblema col leopardo a caccia , forse evocativo della venatio a cui poteva essere dedito il padrone di casa o semplicemente testimoniare il suo amore per gli animali esotici; il pannello si osservava da nord, cioè dal punto in cui erano sistemati i letti triclinii. La sala comunicava con spazi aperti di servizio e corridoi di disimpegno. L’abitazione, che risale alla tarda età repubblicana (1° a.C.), fu frequentata fino al 3-4° secolo d.C.

Bibliografia essenziale
  • P. Monti, Faenza: rinvenimenti di età romana, in Notizie Scavi, s.8, XVI, 1965, pp. 69-82
  • G. Montevecchi, L’edilizia residenziale privata, in Progettare il passato, a cura di C. Guarnieri, Firenze 2000, pp. 129-177, in part. pp. 136-139

IL MOSAICO

Al centro d’un ampio e complesso impianto decorativo, ritmato da cerchi e ottagoni, era collocato un emblema. Nel frammento recuperato dell’emblema campeggia un leopardo, mutilato del muso, che balza su un animale, una gazzella o un altro ungulato, di cui rimangono solamente le zampe posteriori. Il manto chiazzato del leopardo, tessuto con tessere in pietra locale, sfoggia toni di verde, ocra, rosso scuro, arancio, giallo (foto 3); una linea d’ombra sottolinea il suo agile profilo. Il paesaggio è riassunto in poche, strette strisce d’erba a sostenere le zampe degli animali.

Il tema del predatore che insegue la preda è antichissimo e molto diffuso, costella il bacino mediterraneo con tutte le possibili varianti: leone, leopardo, cane tra i predatori; gazzella, antilope, toro, coniglio tra le prede. In Italia motivi analoghi si trovano nella villa di Piazza Armerina, in Sicilia, ma nella regione Aemilia è una rarità.

LA RICOSTRUZIONE

restaurato nel 2013, occupava in una domus faentina la parte centrale d’un pavimento che è stato tagliato e immagazzinato. Per ricostruirlo abbiamo fotografato i lacerti residui, quindi li abbiamo disposti seguendo il rigoroso ordito di moduli circolari raccordati tra loro secondo uno schema che genera ottagoni con quattro lati concavi.

È apparso evidente che l’emblema non poteva essere contenuto in un solo modulo, poiché la cornice si sarebbe sovrapposta sulla figura del leopardo. Dunque l’emblema aveva un’altezza di due moduli, e ciò che ne resta è solo un angolo, purtroppo.

Nel resto dell’emblema sicuramente vi erano altre figure, oltre il leopardo e la gazzella di cui restano le zampe. Abbiamo provato a inserire nella bozza di ricostruzione altre due figure simili, per suggerire come potesse apparire il pavimento integro. Ma abbiamo rinunciato nella ricostruzione definitiva: le ipotesi possibili erano troppe.

Poiché i lacerti consentono di stabilire la larghezza del pavimento, si trattava dunque di ipotizzare quale potesse essere la sua lunghezza. Abbiamo scelto uno schema simmetrico, di 5 moduli per otto, suggerito anche dai triangoli che incorniciano gli ottagoni: sul lato retto se ne contano 5, sul curvo 8. Un ritmo ben noto al mondo antico, con proporzioni pari a 1: 1,6, prossimo alla sezione aurea e che ricorre nella serie di Fibonacci.

Da http://tamoravenna.info/scheda/11-faenza/

IL NUOVO MUSEO DI NOCETO E LA VASCA RITUALE DEI TERRAMARICOLI

Noceto (Parma), inaugurato il giorno 8 ottobre 2021 il museo archeologico dedicato a uno straordinario reperto risalente a 3500 anni fa, che con la sua scoperta ha dato una svolta alle conoscenze sulla protostoria del territorio padano e sulle credenze religiose della civiltà delle terramare.



Nel 2004, in località Torretta di Noceto, veniva alla luce una grande vasca rivestita di legno, costruita ai margini di un villaggio terramaricolo: una poderosa opera di ingegneria e carpenteria dell’età del Bronzo, che per gli abitanti dell’insediamento doveva rivestire un particolare valore sacro.

Tra il materiale rinvenuto nella vasca, eccezionalmente ben conservato, si osservano un centinaio di vasi interi o ricomponibili, venticinque vasetti miniaturistici, sette figurine fittili di animali, resti di fauna, cestini e numerosi frammenti e strumenti lignei, tra cui quattro aratri: ritrovamenti da cui si è dedotto che si trattasse di un bacino artificiale destinato a ricevere le offerte votive.

La vasca rappresenta dunque un’eccezionale testimonianza della competenza tecnica e delle capacità organizzative di cui le comunità terramaricole erano dotate, ma anche dell’investimento di lavoro e di risorse che una comunità dell’età del Bronzo poteva dedicare alla sfera del sacro.



Le attività di scavo archeologico, il restauro dei reperti e la creazione del museo sono stati realizzati grazie alla collaborazione tra il Comune di Noceto, la Regione Emilia-Romagna, il Ministero della cultura, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Parma e Piacenza, il Complesso monumentale della Pilotta di Parma, il Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell’Università di Milano, lo studio di progettisti “Atelier35architetti” di Parma, la ditta “Opus Restauri” e la Fondazione Cariparma.



Il Museo archeologico “La Vasca Votiva” di Noceto è inserito nel Centro museale “Francesco Barocelli”, ospitato dal Centro culturale “Biagio Pelacani” – NUX (in via Silone 1).https://www.youtube.com/embed/6n57GJSKTV0

Approfondimenti

http://www.archeobo.arti.beniculturali.it/pr_noceto/scavi_2004_vasca.htm