Storia del sito: La maggior parte delle costruzioni di epoca celtica era eseguita principalmente di legno o in legno con fondazioni di pietra. Rari sono i ritrovamenti di edifici realizzati completamente in pietra (in Irlanda, Bretagna, Occitania e Galizia) e quello di Roldo è l’unico ad essersi discretamente conservato in tutta l’area Gallo-romana. L’edificio è stato scoperto e studiato da Tullio Bertamini nel 1975 .
Dall’accurato esame dei materiali e delle tecniche costruttive, l’edificio è stato datato al primo secolo dell’era cristiana in un periodo nel quale gli influssi culturali romani erano ancora molto scarsi. Che si trattasse di un edificio di culto è dimostrato dalle tecniche costruttive, dalla posizione, dall’orientamento sull’asse nord-sud e soprattutto dall’uso della pietra e del marmo locale e la pianta interna a doppia cella che attestano un uso sacrale “importante”. Dopo la cristianizzazione dei territori dell’Ossola (IV sec.) fu convertito ad uso profano e, attorno al XIII secolo, fu sopraelevato per trasformarlo in torre di vedetta. Esso si trova oggi inglobato in mezzo ad altre costruzioni.
Descrizione del sito: L’edificio sorge in cima a uno sperone da cui si vede l’intera alta valle e da essa è perfettamente visibile. Esso è poi stato costruito su una grande roccia che è stata scavata per ospitarne le fondamenta e tutto lascia pensare che fosse proprio tale roccia la prima origine del culto su quel sito. E’ costruito interamente in pietra lavorata con una certa maestria e legata a calce.
La soprelevazione medievale è chiaramente visibile all’esterno anche per la diversità del paramento murario. Il tempietto di Roldo ha forma rettangolare dalle misure esterne di m 5,50 di lunghezza e di m 3,60 di larghezza. All’interno è diviso in due piccoli vani: una cella di 2,45 per 2,90 m e un atrio di m 2,45 per 1,10. Si accede all’atrio da una porta con arco a tutto sesto e si passa nella cella grazie ad un’altra porta, che è stata però demolita per creare un ambiente più ampio, a cui fu opposta una porta: queste sono le modifiche più evidenti.
La cella è coperta da una volta a botte impostata a m 2,85 di altezza ed alta, al centro, m 4,10. La copertura era di lastre di pietra sagomate a tegoloni ed è stata nascosta dalla sopraelevazione. Il tetto in beole di tale torre è crollato all’inizio del decennio 1970-80 e fu sostituito con una copertura in lamiera. Vicino alla finestra doveva trovarsi l’altare (o una base con la statua), dati i segni che si rilevano sul pavimento. A circa 4 m di altezza lungo l’intero perimetro del muro sta una pietra piatta e scura, la “laugera”, non di cava locale ma proveniente dalla val Bognanco che aveva una precisa funzione: sui lati Sud e Nord funge da corda di un arco di scarico, sul quale poggiano gli elementi della volta a botte della cella, perché la spinta sia solo in parte scaricata su questi due muri. L’edificio ha una sola piccola finestra, di cm 45 per 58, posta sulla parete di fondo ad una altezza dal pavimento tale che la luce solare penetri direttamente nell’edificio solo nel periodo compreso fra l’equinozio di autunno e quello di primavera (23 settembre – 21 marzo) e che l’illuminazione massima si abbia a mezzogiorno del solstizio d’inverno (22 dicembre), quando il raggio del sole attraversa l’intero tempietto. Per questo non è del tutto azzardato supporre che il tempio fosse dedicato al dio solare Belenos.
Informazioni: In frazione Roldo. Telefono Pro Loco 0324 232883
Centottanta oggetti per ricostruire la storia della Lombardia dal Paleolitico ai primi del Novecento seguendo la Linea del Tempo. Immagini di reperti esposti nelle tredici sedi museali statali che fanno capo alla Direzione Regionale Musei Lombardia del Ministero della Cultura, diretta da Emanuela Daffra. Tra questi c’è anche la Cappella Espiatoria, luogo simbolo del regicidio, dove continuano i restauri e gli interventi di miglioria. Questo viaggio lungo migliaia di anni di storia e di arte è disponibile on line, del tutto gratuitamente, all’indirizzo
Alle 180 immagini sono affiancate schede sintetiche che consentono interrogazioni multiple attraverso parole chiave. Si potranno così creare percorsi di conoscenza e itinerari fisici, accontentare curiosità, scoprire accostamenti impensati, immaginare percorsi di ricerca alternativi.
“Quella proposta nella Linea del Tempo – spiega Emanuela Daffra – è una rete dettata dal patrimonio dei “nostri” musei. Ci offre un filo conduttore preziosissimo per seguire e comprendere l’intera storia della regione. È un progetto che continuerà a crescere, fino ad abbracciare e rendere disponibile l’intero patrimonio affidato alla Direzione lombarda. I nostri siti consentono un viaggio nella storia dell’uomo e delle sue espressioni artistiche che prende avvio dalle incisioni rupestri della Valle Camonica”.
Una grafica intuitiva e contemporanea facilita la consultazione permettendo all’utente di accedere subito a un primo livello di informazioni importanti quali per esempio titolo, data, autore, periodo di appartenenza.
“Se il “viaggiatore nel tempo” desidera addentrarsi in un periodo specifico – precisa la direttrice – può utilizzare lo strumento “Time Zoom” e scoprire, per esempio, che Leonardo finì di realizzare l’Ultima Cena nell’anno in cui i francesi, sotto il comando di Gian Giacomo Trivulzio, conquistarono Milano e costrinsero Ludovico il Moro alla fuga”.
Uscendo dalla timeline, si accede alla pagina dedicata all’opera specifica con sette livelli di informazioni, che permettono all’utente di indagare l’oggetto sotto diversi aspetti e di inserirlo in un contesto di eventi salienti sia storici che culturali. All’interno della scheda si possono selezionare le parole chiave per partire in un viaggio di scoperta potenzialmente infinito. L’esplorazione non si limita soltanto a ripercorrere il tempo ma proietta l’utente nello spazio. Il sistema gestisce grandi volumi di informazioni in modo molto agile e comprensibile ed è concepito per accogliere progressivamente l’intero patrimonio dei tredici musei.
Noceto (Parma), inaugurato il giorno 8 ottobre 2021 il museo archeologico dedicato a uno straordinario reperto risalente a 3500 anni fa, che con la sua scoperta ha dato una svolta alle conoscenze sulla protostoria del territorio padano e sulle credenze religiose della civiltà delle terramare.
Nel 2004, in località Torretta di Noceto, veniva alla luce una grande vasca rivestita di legno, costruita ai margini di un villaggio terramaricolo: una poderosa opera di ingegneria e carpenteria dell’età del Bronzo, che per gli abitanti dell’insediamento doveva rivestire un particolare valore sacro.
Tra il materiale rinvenuto nella vasca, eccezionalmente ben conservato, si osservano un centinaio di vasi interi o ricomponibili, venticinque vasetti miniaturistici, sette figurine fittili di animali, resti di fauna, cestini e numerosi frammenti e strumenti lignei, tra cui quattro aratri: ritrovamenti da cui si è dedotto che si trattasse di un bacino artificiale destinato a ricevere le offerte votive.
La vasca rappresenta dunque un’eccezionale testimonianza della competenza tecnica e delle capacità organizzative di cui le comunità terramaricole erano dotate, ma anche dell’investimento di lavoro e di risorse che una comunità dell’età del Bronzo poteva dedicare alla sfera del sacro.
Le attività di scavo archeologico, il restauro dei reperti e la creazione del museo sono stati realizzati grazie alla collaborazione tra il Comune di Noceto, la Regione Emilia-Romagna, il Ministero della cultura, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Parma e Piacenza, il Complesso monumentale della Pilotta di Parma, il Dipartimento di Scienze della Terra “A. Desio” dell’Università di Milano, lo studio di progettisti “Atelier35architetti” di Parma, la ditta “Opus Restauri” e la Fondazione Cariparma.
Il Museo archeologico “La Vasca Votiva” di Noceto è inserito nel Centro museale “Francesco Barocelli”, ospitato dal Centro culturale “Biagio Pelacani” – NUX (in via Silone 1).https://www.youtube.com/embed/6n57GJSKTV0
Il Colle del Piccolo San Bernardo, una vera e propria “terra di mezzo” dove i confini, nei secoli, non sono in fondo mai stati così netti, così geometricamente definiti. E’ la terra dei pascoli in quota, degli alpeggi, dei laghetti effimeri che appaiono dopo lo scioglimento delle nevi e che, con l’autunno, di nuovo scompaiono nella morsa dei ghiacci.
Il Colle del Piccolo San Bernardo, testimone di oltre 4000 anni di storia, è uno di quei rari luoghi in cui l’alpinismo, lo sport e l’avventura, si fondono al respiro, allo spirito, alle tracce del più remoto passato.
Il cromlech è costituito attualmente da 46 pietre allungate e appuntite, poste ad una distanza di 2 o 4 metri una dall’altra, disposte a formare vagamente una circonferenza di circa 80 metri di diametro. Alcune di queste pietre presentano forme particolari: una in particolare si distingue per le sue dimensioni: larga circa 80 cm, ha una forma squadrata e leggermente appuntita, e risulta più alta rispetto alle vicine.
Il cromlech com’è attualmente dopo gli scavi condotti dalla Soprintendenza nel 2009 che hanno portato alla modifica del tracciato stradale che prima tagliava il cerchio di pietre a metà.La Cima del Lancebranlette con l’avvallamento dove va a tramontare il Sole nel giorno del Solstizio estivo.
Nelle vicinanze è stato scoperto, negli anni Venti del secolo scorso, un fanum, ossia un tempietto a pianta centrale di tradizione gallica utilizzato fino alla tarda età romana che, seppur di epoca molto successiva al cromlech, testimonierebbe il fatto che tutta la zona è stata un importante ed emblematico luogo di culto nell’antichità.
Qui, dove soldati, mercanti e viaggiatori si fermavano a pregare Giove, padre degli dei, presente in ogni più sperduta landa del vasto e multiforme Impero.
Scritti di autori locali testimoniano la presenza di un’alta colonna di porfido grezzo, la Columna Jovis, sormontata da un grosso rubino detto l’occhio di Giove o Escarboucle, dotato di poteri magici capaci di disorientare gli uomini e far loro perdere la strada; questa colonna in origine doveva far parte del monumento mentre ora è di sostegno alla statua di San Bernardo.
Busto di Giove Graio in argento sbalzato, rinvenuto sul Colle del Piccolo San Bernardo, associato a un ricco corredo rituale.
Petronio descrive questo luogo come sacro a Ercole Graio, riferendosi al mito del passaggio dell’eroe attraverso l’Alpis Graia che, non a caso, proprio da lui prende il nome:
“Nelle Alpi vicine al cielo, nel luogo in cui, scostate dalla potenza del Graio nume, le rocce si vanno abbassando, e tollerano di essere valicate, esiste un luogo sacro, in cui si innalzano gli altari di Ercole: l’inverno lo copre una neve persistente e alza il suo bianco capo verso gli astri” (Petronio, Satyricon,122)
Situato sullo spartiacque dei bacini della Dora Baltea e dell’Isère, il monumento si trova in una posizione straordinariamente significativa anche dal punto di vista astronomico. Ogni 21 giugno, alle 19.30, il sole tramonta dietro una sella del Lancebranlette, una vetta a Nord Ovest dell’orizzonte, e proietta due falci d’ombra che progressivamente abbracciano il cerchio di pietre fino a lasciarne illuminato soltanto il centro.
Una leggenda che si racconta a Borgo Rivola, antico paese della Valle del Senio nel Faentino (Ravenna) tra Riolo Terme e Casola Valsenio, narra come in tempi molto antichi un re di nome Tiberio, per sfuggire alla profezia di un oracolo che gli aveva predetto una morte imminente perché colpito da un fulmine, si era insediato dentro una grotta esistente nei Gessi di Borgo Rivola.
Lì era rimasto per molto tempo, forse per anni, insieme alla sua famiglia e ai suoi sudditi. Nel timore si potesse avverare l’infausta previsione, non usciva in sostanza mai dal suo antro. Un giorno però, stanco di quella volontaria clausura, chiese ad un servo di controllare quale tempo facesse all’esterno. La risposta fu tranquillizzante: tutto sereno, salvo un’innocua piccola nuvoletta. Montato a cavallo, Re Tiberio finalmente uscì dalla grotta e cavalcò verso il fiume, inebriato dalla luce del sole e dall’aria profumata dei fiori. Poco dopo però l’innocua nube cominciò a crescere e diventare grande e scura, fino a coprire il sole. Visto il mutare della situazione, il re girò in fretta il cavallo e si precipitò al galoppo verso l’ingresso della cavità, ma non fece in tempo a entrarvi che l’accecante bagliore di un fulmine, seguito dal fragore cupo del tuono, lo colpì facendolo crollare a terra. Da allora la grotta porta il nome di Tana del Re Tiberio. L’origine di questa leggenda rientra nelle tradizioni popolari della valle faentina e si perde lontana nei tempi. Come quasi sempre accade, i racconti anche se fantastici nascondono sempre qualche elemento di verità. Infatti l’origine di tale leggenda va ricercata nella storia antica riguardante questa grotta, nella quale affioravano numerosi reperti preistorici, rinvenuti da pastori o da occasionali visitatori (e da falsari di cui parleremo più avanti).
Cava di Monte Tondo
Le ricerche archeologiche L’imolese Giuseppe Scarabelli (1820 – 1905), famoso geologo, archeologo e politico, viene considerato il fondatore dell’archeologia preistorica italiana, in quanto fu il primo a realizzare uno scavo stratigrafico. Vi furono diversi studiosi che seguirono questa sua metodologia, tra cui Francesco Orsoni, lo scopritore della Grotta del Farneto nel 1871, che effettuò uno scavo stratigrafico nella suddetta cavità preistorica. Fu però lo Scarabelli che, per primo nello stesso 1871, eseguì accurate ricerche archeologiche nella Grotta del Re Tiberio, da cui ricavò un’ingente quantità di reperti in ceramica e altri materiali. La grotta fu interessata infatti, come del resto altre cavità emiliane e romagnole, da diverse fasi di frequentazione umana antica. La prima, la più antica, fu quella databile alla fine dell’Età del Rame (III millennio a.C.), con un utilizzo tipicamente sepolcrale. Anche nella fase del Bronzo Antico (inizio II millennio a.C.) sono stati rinvenuti alcuni frammenti di ceramiche e un’ascia piatta di rame, oltre a scheletri umani e ad un livello stratigrafico contenente carboni di un focolare. Nella successiva seconda Età del Ferro, nella zona vicino all’ingresso fu realizzato un arcaico (ma efficiente) impianto di raccolta e di deflusso delle acque di stillicidio, scavando delle piccole vasche di raccolta nel gesso.
Bronzi votivi dell ‘età del ferro. Si notino i torques di fattura celtica
Vi era, accanto alla grotta, anche un’area sacra di età umbra. Questo luogo, divenuto di culto delle acque dalla metà del I millennio a.C., si colloca tra i più importanti della regione. Infatti si ritiene che la raccolta delle acque di stillicidio fungesse da “tramite” per stabilire un contatto con la divinità.
L’utilizzo come santuario non ha mai avuto interruzioni fino all’epoca di Roma Imperiale, in altre parole fino al III sec. d.C. I tecnici romani eseguirono una risistemazione della cavità, livellando il piano di calpestìo, compreso un rimodellamento del sistema di drenaggio. La presenza di moltissimi bronzetti votivi e di centinaia di vasetti miniaturistici, sempre posti vicino alle vasche in cui si raccoglievano le acque, dimostrano una grande affezione cultuale per questo luogo particolare. Nel 2010 gli scavi effettuati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, hanno ricostruito l’intero sistema di vaschette votive presenti nella parete presso l’ingresso. Occorre arrivare al Medioevo, tra la fine del XIV e fino al XV secolo, per ritrovare la Tana del Re Tiberio, questa volta in una veste certamente più profana. Infatti allora la cavità fu utilizzata, a più riprese, da falsari che battevano moneta, il cui materiale, verosimilmente, era ricavato fondendo i bronzetti che ancora si trovavano nel terreno vicino all’entrata. Sono stati scoperti, a tal proposito, residui metallici e monete riuscite male. Forse proprio da questi ultimi ritrovamenti, come accennato all’inizio, è nata la leggenda tra la gente del posto di un fantomatico Re Tiberio.
Visita
La grotta come Sepolcreto Per quello che concerne le inumazioni antiche rinvenute in grotta, sono state fatte accurate ricerche. I primi ritrovamenti si devono a Giuseppe Scarabelli e a Giacomo Tassinari a metà del XIX secolo. Gli scheletri furono rinvenuti in una zona non lontana dall’ingresso. Nel1870 lo Scarabelli scoprì, a circa 5metri di profondità, ossa umane appartenute a due individui, rispettivamente di un adulto e di un giovane adolescente. I resti scheletrici erano deposti su uno strato di gesso e ricoperti da un livello di terra con abbondanti resti ceramici, databili all’Età del Bronzo. Negli anni ’70 e ’90 del secolo scorso, grazie alle ricerche del Gruppo Speleologico Faentino e dello Speleo GAM di Mezzano, sono stati rinvenuti nuovi resti umani risalenti al Bronzo Antico (XXIII-XXI sec. a.C.). Si tratta di sei individui adulti di ambo i sessi e di età giovanile. Nel 2004 sono stati individuati altri quattro scheletri maschili e femminili, di età compresa tra i sedici ed i trent’anni. Presente era anche un bambino di appena sei anni e un neonato di pochi mesi. Nel 2010, nella parte più lontana dal corridoio d’ingresso della grotta, sono venuti alla luce altri quattro resti umani di cui uno di età adulta (maschio), un ragazzo di circa 14 /16 anni, un bambino di circa sei anni ed un neonato. In tutto, finora, sono stati scoperti sedici individui di varia età e sesso. Tuttavia oggi gli archeologi ritengono che il sepolcreto romagnolo fosse di dimensioni maggiori ma, a causa dei lavori della attigua e sottostante cava di gesso, tali escavazioni avrebbero provocato la perdita di numerosi reperti. (da terreincognitemagazine.it)
Il sito archeologico, considerato uno dei più importanti del nord Italia per il suo connubio tra interesse scientifico e suggestione ambientale, era stato individuato e portato alla luce con degli scavi condotti nel 1835 da Giovanni Girolamo Orti Manara, le cui evidenze erano state registrate dalla mano di un illustre pittore mantovano, Giuseppe Razzetti, che aveva realizzato alcuni disegni ora conservati alla Biblioteca Civica di Verona. Fondamentale fu, al tempo, il ritrovamento di alcune iscrizioni votive in latino su pietra, che più volte riportavano una dedica alla dea Minerva e che hanno fatto pensare a un’intitolazione dell’intera struttura a tale divinità, sicuramente per l’età imperiale romana (a partire dal I sec. a.C.). Successivamente, l’abbandono e la costruzione dei terrazzamenti e dei muri a secco tipici delle colline della Valpolicella (le marogne) hanno ricoperto nuovamente il Tempio di Minerva, facendo perdere anche l’ubicazione del luogo in cui si doveva trovare.
I resti archeologici del Tempio sono stati riscoperti nel 2007 a seguito di un’operazione di recupero della memoria che ha coinvolto l’intera popolazione di Marano e non solo e che ha permesso, seguendo la tradizione orale, di individuare, tra le marogne del Monte Castelòn, il punto dove scavare per far riemergere il sito archeologico. Reperiti i finanziamenti necessari, sono state intraprese due campagne di scavo nel 2010 e nel 2013, che hanno messo in evidenza eccezionali peculiarità. Nel 2018 si sono conclusi i lavori di messa in sicurezza del sito, con l’installazione di una struttura di copertura e la realizzazione di un percorso di visita.
Negli scavi archeologici recenti,è stato possibile verificare la presenza di un sito pluristratificato, con la presenza nel medesimo luogo di rilevanti tracce di tre epoche di frequentazione differenti. Un primo luogo di culto protostorico, attivo fin dal VI secolo a.C., è testimoniato dalla presenza di un rogo votivo, conosciuto in area retica e alpina con il nome di “Brandopferplätz”, al cui interno sono state rinvenute tracce, tra l’altro, di un numero elevato di anelli digitali, interpretabili come offerte rituali. Sono stati poi evidenziati i resti di una struttura di culto romana di epoca tardo-repubblicana, realizzata probabilmente verso la fine del II sec. a.C. e a cui dovevano appartenere numerosi frammenti di decorazione di parete, che rappresentano la scoperta più importante dell’intera serie di campagne di scavo: una serie di elementi di intonaci dipinti e di stucchi ascrivibili al c.d. “I stile pompeiano”, una tecnica pittorica molto curata e di ottima fattura, presente nei più grandi siti archeologici del bacino del Mediterraneo, tra cui Pompei, rara, se non unica in Italia settentrionale.
La terza e ultima fase è quella che era già stata evidenziata dagli scavi ottocenteschi, ovvero quella di età imperiale: una costruzione databile verso la fine del I secolo a.C., attiva almeno fino al V sec. d.C., con una struttura tipica di un tempio di tradizione celtica (una cella centrale sopraelevata circondata da gallerie e da un colonnato, con copertura in tegole e coppi), in apparente contrasto con l’architettura locale del tempo, consistente in strutture spesso seminterrate e quasi completamente in pietra della Lessinia. Assoluta peculiarità è anche la presenza di una parte di muro realizzato con la tecnica del c.d. opus reticulatum, quasi totalmente assente in Italia settentrionale se non nelle terrazze del Teatro Romano di Verona, che fanno pensare ad una committenza di rango e cultura elevata, con influenze centro-sud italiche. Tutte e tre le strutture sono state costruite una sopra l’altra, apparentemente senza soluzione di continuità, sfruttando ognuna la posizione e il materiale proprio di quella di epoca precedente. L’area archeologica non è stata ancora indagata completamente e si ritiene possa rivelare ancora interessanti emergenze in una futura campagna di scavi.
Nel 1965 alcuni speleologi della Commissione Grotte della Alpina delle Giulie, scoprivano alle falde meridionali del Monte Ermada una cavità che era quasi completamente obliterata da materiali di crollo.
GROTTA DEL MITREO 1255RE / 4204 VG
Nel 1965 alcuni speleologi della Commissione Grotte della Alpina delle Giulie, scoprivano alle falde meridionali del Monte Ermada una cavità che era quasi completamente obliterata da materiali di crollo. Nei primi lavori di disostruzione apparvero frammenti architettonici, tra cui parte di una stele iscritta, dalla quale si desunse che la cavità era stata usata come tempio ipogeo dedicata al Dio Mitra. I lavori di scavo successivamente intrapresi dalla Soprintendenza Archeologica di Trieste misero in luce una cavernetta, la quale era stata adattata in epoca romana, mediante l’asporto del materiale del cono detritico dell’ingresso per uno spessore di circa tre metri che era stato sparpagliato per livellare il pavimento, sicché insieme ai materiali romani vi erano pure manufatti preistorici.
Dopo aver messo in luce alcune strutture proprie del Mitreo, un ricco complesso di monete che andava dal II al IV secolo, lucerne e vasetti di ceramica nord-italica, frammenti di anfore, di tegole e tavelle, fu investigato il sottostante deposito archeologico, dello spessore di circa due metri. In esso erano presenti livelli contenenti materiali che andavano dall’età del ferro, con resti della cultura dei castellieri, a manufatti tipo Lubiana e Vucedol e ceramica a Besenstrich, il neolitico era contraddistinto dai vasi a fondo cavo, decorati con incisioni; si è trovato pure qualche frammento di ceramica impressa e due frammenti di vasi a bocca quadrata. Lo scavo condotto nel deposito wurmiana per oltre due metri di profondità, cioè fino ad un antico pavimento stalagmitizzato, non ha dato alcun risultato.
(TESTO TRATTO DA: “ATTI DELLA SOCIETÀ PER LA PREISTORIA E PROTOSTORIA” DELLA REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA VOL. III, DI DANTE CANNARELLA, ARTI GRAFICHE PACINI MARIOTTI – PISA 1979, PAGG.101-102).
GROTTA DEL MITREO 1255RE / 4204VG – RILIEVO
LA GROTTA DEL DIO MITRA Grotta del Mitreo, Caverna del dio Mithra, Tempietto del dio Mithra.
Sempre nella stessa zona, dobbiamo rammentare un’altra importante scoperta fatta nel 1965 da speleologi della Società Alpina delle Giulie, i quali trovarono una piccola cavità, quasi del tutto obliterata dai detriti, che era stata trasformata in tempio dedicato al culto del dio frigio Mitra.
La grotta, che porta il n° 4204 del catasto Venezia Giulia, si apre ad una cinquantina di metri sopra l’autostrada, 500 metri prima di arrivare alla Chiesa di San Giovanni del Timavo. Poiché l’autostrada è cintata, oggi per raggiungere la grotta bisogna fare un lungo giro. Si segue la Statale 14 in direzione di Monfalcone, e 200 metri dopo aver superato il bivio che porta a Duino, sulla destra si entra, ad angolo retto, in una strada sassosa che conduce alle ville della zona. La si segue per una ventina di metri, poi si piega a sinistra. La strada, piuttosto dissestata, passa davanti ad alcune ville, s’infila sotto l’autostrada, comincia ad inerpicarsi sul pendio del Monte Ermada, passa davanti al casello ferroviario e quindi costeggia la linea ferroviaria per circa 300 metri; poi, piegando bruscamente, passa sotto la linea ferroviaria. A questa curva si abbandona la strada e si scende lungo un sentierino ben tracciato, che dopo una trentina di metri porta alla grotta.
Al momento della scoperta, la cavità era grande poco più di una tana di animali. Gli speleologi cominciarono a svuotarla dal sassi e dal terriccio, e si imbatterono in alcuni frammenti di lapidi con iscrizioni dedicatorie, dalle quali fu possibile capire che la grotta era stata usata come tempio del Dio Mitra. Le successive campagne di scavi, intraprese dalla Soprintendenza, misero in luce una cavità di circa un centinaio di metri quadrati di base. Sul lato sinistro, dove la volta era più alta, c’erano due banconi in muratura, alti 60 cm e larghi altrettanto, che si sviluppavano per circa 2,50 m di lunghezza: erano paralleli tra loro e distanti 3 metri. Sulla parete di fondo, praticamente al centro dei banconi, sono visibili due fori e tracce dello scalpellamento della roccia, fatto per levigarla. Qui evidentemente era attaccata la stele dedicatoria, con il bassorilievo rappresentante il Dio Mitra che compie il sacrificio del toro, incorniciato da un arco sostenuto da due colonne; sopra l’arco è posta una trabeazione con l’iscrizione votiva di un certo Paunianus che fa voti per la salute propria e dei familiari.
Dai frammenti reperiti si son potute ricostruire due stele, fatte in epoche successive. Sono stati trovati anche alcuni cippi, di cui due con iscrizioni. Lo scavo del livello romano ha restituito oltre 400 monete e frammenti di centinaio di lucerne e vasetti votivi, oltre a molta altra ceramica più comune. Negli strati sottostanti c’erano invece manufatti preistorici, che andavano dall’età del ferro al neolitico. Il deposito è stato scavato e studiato anche da ricercatori della nostra Università.
Il culto del Dio Mitra fu introdotto nell’Impero romano dai legionari provenienti dall’Asia Minore, di dove il culto era originario. A questo proposito bisogna ricordare che XV legione Apollinare, nella quale militavano le genti giuliane, prestava servizio in quella zona.
Visto il grande interesse che la grotta rivestiva, la locale Sezione Antichità della Soprintendenza nel 1974 provvedeva ad eseguire importanti lavori di sistemazione del Mitreo, grazie anche all’opera disinteressata di alcuni studiosi locali. Si provvide ad un ulteriore sbancamento del deposito per dare maggior ampiezza alla cavità, si restaurarono i banconi, e si costruì una scala di accesso in muratura. Infine, sono stati fatti i calchi delle due stele, dopo il restauro e l’integrazione delle parti mancanti, nonché dei capitelli.
Recentemente i calchi sono stati posti nella cavità che è stata così resa visitabile con la ricostruzione del tempietto ipogeo.
(TESTO TRATTO DA: “GUIDA DEL CARSO TRIESTINO” – PREISTORIA – STORIA – NATURA, DI DANTE CANNARELLA, EDIZIONI ITALO SVEVO – TRIESTE 1975 – PAGG. 166/168).
CTR 1:5000 – 110062 SAN GIOVANNI AL TIMAVO – S. P. SISTIANA – MONFALCONE; RACCORDO AUTOSTRADALE TRIESTE – LISERT A4.
IL MITREO
Non lontano dalle risorgive del Timavo, sulle pendici dell’Ermada, si apre nelle viscere del monte una grotta (VG 4204), che fu utilizzata in età imperiale romana per il culto di un dio misterioso e salvifico: Mitra (vedi riquadro sul culto di Mitra). Il facile accesso alla cavità e la vicinanza alle polle d’acqua avevano indotto gli uomini a frequentarla fin dall’età preistorica, nel neolitico e successivamente, nell’età del bronzo e del ferro, dalle genti della “civiltà dei castellieri”, come si può desumere dai reperti rinvenuti al suo interno dagli scavi archeologici.
Ma è con lo sviluppo di un vivace centro portuale nella zona del lacus Timavi, e con la presenza di mercanti, soldati e funzionari romani, che la cavità naturale si prestò ad essere la sede più adatta per ospitare le cerimonie degli adepti di Mitra, che si svolgevano, infatti, in sale ipogee, solitamente artificiali.
Un gran numero di monete e lucerne, deposte nella grotta come offerte rituali, offrono precisi elementi di datazione e consentono di stabilire che l’insediamento avvenne nella seconda metà del I secolo d.C. e che la frequentazione fu intensa nei secoli III e IV. Il Mitreo del Timavo sarebbe pertanto uno dei più antichi in occidente, anteriore anche a quello di Aquileia, risalente al II secolo, e sarebbe anche l’unico. Tra quelli scoperti, ubicato in una grotta naturale. Alla fine del IV secolo, con la promozione del cristianesimo a religione di stato, tutti i culti pagani furono banditi e si verificarono ovunque episodi di danneggiamento o distruzione dei luoghi ove si veneravano tali dei.
A queast’epoca risalgono anche la devastazione e l’abbandono del Mitreo; i reperti più tardi non si spingono, infatti, oltre la prima metà del V secolo. Le stele e gli oggetti rituali furono infranti, gli adepti dispersi o convertiti; la grotta venne pian piano ostruita dai detriti e si perse la memoria del luogo e del culto che aveva ospitato. La riscoperta è assai recente; dopo una segnalazione, nel 1966, dalla Commissione Grotte “E. Boegan” della Società Alpina delle Giulie di Trieste, sono intervenuti, negli anni Settanta, lavori di prospezione archeologica da parte di vari Istituti e di sistemazione del sito a cura della Soprintendenza.
L’aspetto attuale, seppur discutibile, dal punto di vista archeologico, vuole suggerire ai visitatori l’immagine del sito così come configurarsi nell’antichità. Due banconi paralleli in muratura destinati ai fedeli, che vi potevano sedere o vi si sdraiavano per partecipare all’agape, il banchetto rituale. In mezzo ad essi, al centro della cavità, è stato collocato un blocco dio calcare squadrato, che era forse un’ara per i sacrifici; lo contornano altre sei arette dedicatorie. Sulla parete di fondo è posto il calco ricostruttivo di un rilievo di cui si sono ritrovati i frammenti: Esso rappresenta il dio – vestito come d’abitudine con una corta tunica, il mantello svolazzante e un berretto frigio in capo – mentre immola il toro. Al di sopra del dio, compariva il corvo e sotto il toro lo scorpione.
La scena è inquadrata entro un arco che, assieme a due pilastri sostiene una trabeazione che reca la dedica:
D (eo) I (nvicto) M (ithrae) AV (lus) TULLIVS PAVMNIANVS PRO SAL (ute) ET FRATER SVOR (um) TVLLI SECUNDI ET TVLLI SEVERINI
“All’invitto dio Mitra Tullio Paumniano offre per la salvezza sua e dei suoi fratelli Tullio Secondo e Tullio Severino”.
Nei pennacchi comparivano le personificazioni del giorno e della notte, di cui ci è rimasta solo la seconda, raffigurata da un volto femminile sormontato dal crescente lunare. Al di sotto erano rappresentati i due geni Cautes e Cautopates, portatori delle fiaccole vitali,il primo teneva alzata e il secondo rivolta invece verso il basso.
Più sotto ancora, alla base della cornice decorata a scaglie, dovevano esserci due “vignette” relative al mito di cui Mitra era protagonista; ci è rimasta solo quella di sinistra che lo raffigura mentre trasporta il toro, dopo la sua uccisione.
Una seconda stele è stata posta contro la roccia a sinistra. Molto più mutila della prima, ha posto notevoli problemi di ricostruzione dell’immagine raffiguratavi, anche perché si rifaceva ad un’iconografia di Mitra piuttosto inconsueta. In essa il toro è ritto sulle zampe posteriori, forse nell’estremo tentativo di fuggire, mentre Mitra lo colpisce alle spalle con il coltello. A destra il corvo, posato su di un tronco o una roccia, sembra afferrare con il becco la coda del toro. Ai lati della testa di Mitra si leggono poche lettere della dedica, che sembra sia stata sfregiata di proposito.
Nell’angolo di destra, non lontano dall’ingresso si vede un camino che comunica con l’esterno e che si ritiene potesse essere usato per il sacrificio rituale del toro. Non doveva trattarsi tuttavia di un rito compiuto di frequente, forse soltanto in un giorno particolare dell’anno – presumibilmente attorno al solstizio d’inverno – quando bisognava liberare la luce dalle tenebre che cercavano di sopraffarla:. Nelle riunioni ordinarie gli adepti, con il volto coperto dalle maschere che simboleggiavano il loro grado, partecipavano ad un banchetto rituale, come quello effigiato nella stele frammentaria ritrovata, non lontano da qui, nel Mitreo di Elleri.
IL SIMULACRO DI MITRA COME DOVEVA ESSERE COLLOCATO NEL FONDO DELLA “SPAELEUM” (STUDIO G. PROSS GABRIELLI)
IL CULTO DI MITRA
Il culto di Mitra ha la sua origine nell’oriente indo-iranico ed è legato a quello di Ahura Mazda, dio della luce e del fuoco, principio della vita e del bene nello zoroastrismo. Da questa connessione ha tratto la caratteristica di dio solare con cui sarebbe stato poi conosciuto in occidente. Dall’area di origine infatti, il culto mitraico cominciò a spostarsi verso occidente, diffondendosi nell’impero romano, a partire dal I secolo d.C., per opera soprattutto dei mercanti orientali e dei soldati. Per questo motivo i luoghi di culto sono stati ritrovati quasi esclusivamente in vicinanza delle grandi città portuali e dei posti di guarnigione. Ed è significativo, per quanto riguarda il mitreo che stiamo visitando, che fosse attestata la presenza nelle vicinanze della XIII legione Gemina, che proveniva proprio dall’oriente.
Quello di Mitra era un culto misterico, riservato solamente ad un numero ristretto di fedeli maschi. Era celebrato in ambienti sotterranei, solitamente artificiali, che dovevano rappresentare una grotta, luogo dove Mitra, generato dalla roccia, aveva conquistato la luce e la vittoria. Il segreto che lo circondava è stato però ben mantenuto, per cui tuttora conosciamo soltanto sommariamente alcuni aspetti del culto, mentre il rituale è rimasto del tutto oscuro. Il poco che ci è noto è stato desunto dalle raffigurazioni e dalle iscrizioni dedicatoria pervenuteci e dagli strali polemici di alcuni scrittori cristiani: quello di Mitra, infatti, era un culto che venne affermandosi in occidente contemporaneamente al cristianesimo ed in concorrenza con questo. Si presentava anch’esso come un culto soterico, legato alla vittoria della luce sulle tenebre, simbolismo con cui era raffigurato anche Cristo. Il momento culminante – rappresentato in genere sulle stele all’interno dei mitrei – era costituito dall’immolazione di un toro, simbolo delle tenebre e della materia.
Nelle imprese del dio un ruolo importante era svolto da alcuni animali e personaggi, che andarono a simboleggiare poi, nel culto, i sette gradi degli iniziati. Essi erano il corvo (corax), un essere misterioso (gryphus), il soldato (miles), il leone (leo), il persiano (perses), il messaggero del sole (heliodromos) e infine il pater.
(I DUE TESTI SONO STATI TRATTI DA: “LE STRADE DI AQUILEIA” – NUOVI ITINERARI TRA FRIULI E GOLFO ADRIATICO DI DONATA DEGRASSI, LIBRERIA EDITRICE GORIZIANA GORIZIA 2000, PAGG.147/149).
Nella grotta 4204 VG situata a circa mezzo chilometro, SSE dalla frazione di San Giovanni in Tuba, alle falde dell’Ermada, venivano scoperti nel 1965 i resti di un tempietto dedicato al dio Mitra.
La Società Alpina delle Giulie, che aveva disostruito la cavità, avvertiva del ritrovamento la locale Soprintendenza che provvedeva al recupero del materiale archeologico di epoca romana. Più tardi veniva effettuato, a cura dell’Università degli Studi, un sondaggio nella parte preistorica del riempimento, sicché si può ora ricostruire con sufficiente esattezza la storia della grotta.
Questa venne usata in epoca preistorica come abitazione, similmente a tante altre caverne del nostro territorio, e nel periodo imperiale romano fu dedicata al culto del dio di origine persiana, ma da tempo accolto dai Romani, insoddisfatti ormai della religione tradizionale ed attenti alle novità che arrivavano dall’Oriente: Ebraismo, Cristianesimo, culto di Iside, culti solari.
A questa ultima categoria apparteneva per l’appunto il Mitraismo introdotto a Roma dagli schiavi orientali, diffuso dapprima tra gli strati più poveri della popolazione, accolto poi con simpatia da funzionari e militari che nel dio solare saggio equanime e valoroso, trovavano un modello da seguire.
Favorito da coloro che speravano di riportare anche nel campo religioso i cittadini dell’impero ad una unità da tempo perduta (divinità solari erano adorate sia nell’Europa continentale che nel bacino mediterraneo e perciò un dio solare unico avrebbe avuto più successo degli oramai troppo dimenticati numi di Roma), adottato da Diocleziano che tentò invano di contrapporlo al Cristianesimo avanzante (quest’ultimo non era certo bene accetto, dal momento che poneva in discussione la divinità dell’Imperatore e predicava la pace e la fratellanza universale), cominciò a decadere quando Costantino dette libertà di culto ai Cristiani e subì un colpo mortale da Teodosio, che elevò il Cristianesimo a religione di Stato, proibendo tutte le altre. Probabilmente a quell’epoca (fine del IV sec. d.C.) il tempietto presso San Giovanni in Tuba fu abbandonato e distrutto.
Gli scavi hanno riportato alla luce oltre duecento monete di bronzo ed una di argento, appartenenti al III e IV secolo d.C., cioè al periodo in cui il Mitraismo aveva conosciuto il suo massimo splendore, alcune centinaia di lucerne di terracotta, intere e frammentate, qualche resto di ceramica grezza (pezzi d’anfora e grossi recipienti) e numerosi frammenti lapidei di notevole importanza, alcuni dei quali con dediche al “dio invitto Mithra”.
SAN GIOVANNI DI DUINO
GROTTA DEL MITRE, RICOSTRUZIONE DELLA STELE DI MITRA:
A. SCRITTA DEDICATORIA
B. SOLE
C. LUNA
D. CAUTES CON LA FIACCOLA ABBASSATA
E. CAUTOPATES CON FIACCOLA ALZATA
F. MITRA CON IL BERRETTO FRIGIO
G. IL TORO SACRIFICATO
H. LA CODA DEL TORO TERMINANTE IN SPIGA
I. LO SCORPIONE
J. IL SERPENTE
K. IL CORVO
L. LA ROCCIA DELLA GROTTA
M. OFFERENTI
DESCRIZIONE 1255RE/4204VG TRATTA DAL CATASTO REGIONALE DELLE GROTTE
Nel 1963, nel corso di un esame sistematico della zona situata tra la linea ferroviaria e la Statale 202, venne individuata a poca distanza dalle risorgenze del Timavo una cavità non catastata. Si trattava di una caverna poco estesa ed alquanto irregolare, ingombra di pietrame di grosse dimensioni che in qualche punto giungeva a toccare la volta.
ACCESSO 1255/4204VG:
la grotta si trova in una piccola dolina dalle pareti scoscese, 50m a monte della superstrada, all’altezza del cimitero di Duino e di S.Giovanni al Timavo.
DESCRIZIONE 1255/4204VG:
la grotta fu scoperta nel 1963 da alcuni speleologi della Commissione Grotte; allora la grotta era ingombra di pietrame di grosse dimensioni che in qualche punto giungeva a toccare la volta.
La descrizione che segue risale all’epoca delle prime esplorazioni ed è stata redatta da Mario Galli.
“Il primo ingresso è un ampio portale alto circa 1m e largo oltre 7m, diviso in due da un cumulo di grosse pietre. La seconda apertura è costituita da un foro strettissimo che si apre sull’orlo meridionale della dolina e che immette nella cavità con un pozzetto di 2,5m.
La cavernetta, accessibile in qualche tratto con difficoltà a causa delle sue piccole dimensioni, è probabilmente il residuo di una cavità di proporzioni ben maggiori che ha subito un colossale riempimento di detriti; essa rappresenta la parte superiore di una galleria anticamente percorsa dalle acque, la cui parete ha ceduto in corrispondenza di qualche fratturazione, dando luogo all’attuale imbocco, ampliandosi con il succedersi dei fenomeni di crollo.
Il suolo infatti è costituito da un grande cumulo di terra e pietra che in più punti raggiunge la volta, lievemente digradante verso la parete orientale, dove lascia, sotto volta, una fessura impenetrabile. Poche tozze concrezioni, in parte semisepolte, ornano la parte meridionale della cavità, dove più scomodo è l’accesso in quanto per alcuni metri la cavernetta è alta appena 30-50cm.
La parte più spaziosa della cavità è quella settentrionale.
Proseguendo oltre il cumulo di massi che divide in due l’entrata, si giunge in un vano di dimensioni più ridotte del precedente e che è la sua continuazione. Successivamente, superando un basso passaggio si giunge alla base del pozzetto menzionato.”
In considerazione del fatto che la grotta era ubicata in un’area già nota per la presenza di vestigia romane, e che quindi poteva rappresentare un interessante sito archeologico, venne iniziato lo sgombro del materiale detritico che riempiva quasi completamente la cavità.
Durante i lavori di disostruzione la Commissione Grotte portò alla luce alcuni reperti attribuibili all’epoca romana e quindi i lavori vennero immediatamente sospesi; successivamente vennero ripresi dalla Sezione Scavi e Studi di Preistoria Carsica “R.Battaglia” della Commissione Grotte, limitatamente ad una zona di 5m x 2m situata sotto la parete sinistra (entrando), nella quale si erano trovati i reperti attribuibili all’epoca romana. I signori Stradi, Andreolotti e Gombassi della Commissione Grotte eseguirono alcuni scavi d’assaggio.
Lo scavo venne approfondito nel suolo sottostante il detrito e furono rinvenuti numerosi resti archeologici tardoromani, tra i quali un pilastrino con un’iscrizione incompleta, vari frammenti di bassorilievo, resti di vasellame, numerose lucernette e 98 monete, in parte non classificabili per lo stato di deterioramento, e una pietra cubica di 50cm di lato, che rappresenta con tutta probabilità l’ara sulla quale avevano luogo i sacrifici.
Constatata l’importanza dei ritrovamenti i lavori vennero sospesi e ne fu data relazione alla locale Soprintendenza ai Monumenti, Gallerie ed Antichità che riprese gli scavi senza però trovare reperti significativi; si rinvennero ancora alcuni piccoli frammenti della stele votiva ed altre monete, non diverse da quelle già raccolte. Tutto il materiale archeologico fu portato al nel Museo di Aquileia.
Gli oggetti messi in luce hanno permesso di stabilire che la cavità ospitava un tempietto ipogeo dedicato al Dio Mithra, il cui culto si era diffuso nell’Impero tra la metà del III e la fine del IV secolo e le monete raccolte, tranne una più antica, si riferiscono appunto a tale periodo.
Al di sotto dello strato romano si estende un deposito preistorico intaccato con il livellamento del suolo all’epoca dell’adattamento a luogo di culto; i residui del cocciopesto che costituiva la pavimentazione inglobano infatti qualche resto ceramico dell’età dei castellieri.
Con l’avvento del Cristianesimo e la proibizione dei culti pagani il tempio venne abbandonato e forse anche devastato e sulle rovine andarono a depositarsi, in quindici secoli, detriti e terreno organico.
Nel corso della prima guerra mondiale tutte le cavità della zona subirono adattamenti di vario genere, ma fortunatamente la caverna venne a trovarsi, sia pur per pochi metri, al di là della linea difensiva austriaca che correva lungo la vicina ferrovia, sfuggendo in tal modo alla devastazione a cui andarono incontro altre grotte di interesse preistorico, come la Grotta Fioravante (411/939VG) e la Grotta di Visogliano (80/414VG).
Negli anni 1971 e 1972, l’Istituto di Antichità Alto Adriatico effettuò nella parte meridionale della cavità un altro scavo, questa volta nell’intento di acquisire cognizioni sul deposito preistorico, la cui esistenza era stata accertata nel corso delle precedenti indagini. La successione stratigrafica ed i reperti risultarono analoghi a quelli messi in luce in altre grotte del Carso triestino e non furono rinvenuti quei livelli paleolitici che la particolare situazione della cavità aveva fatto ritenere probabili; la trincea ora si esaurisce in uno strato di crostoni stalagmitici ed argilla sterile alla profondità di circa 3m.
Gli scavi praticati nella cavità hanno mutato radicalmente l’aspetto della medesima. Ne è risultato un ambiente più spazioso, ma con il materiale di scarto sono stati ostruiti molti passaggi laterali sotto parete, nei quali era possibile avanzare per un buon tratto in varie direzioni; la volta soprastante l’imbocco, giudicata pericolante, è stata fatta crollare con le mine, ottenendo così anche una maggiore illuminazione dell’antro.
Attorno all’ingresso è stato eretto un recinto munito di un cancello per evitare gli scavi abusivi e le chiavi sono custodite dalla Soprintendenza.
DA “SPELAEUS” DI FRANCO GHERLIZZA ED ENRICO HALUPCA:
“Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Trieste iniziava una consistente e sistematica campagna di ricerche, dapprima per liberare la cavità di tutte le macerie, successivamente per investigare i sottostanti livelli preistorici, ricchi di manufatti che andavano dall’età del ferro sino al neolitico.
Scavi successivi, per lo più volti ad intaccare gli strati sottostanti, dettero alla luce resti appartenenti all’età del ferro, rappresentato da resti della cultura dei castellieri, Lubiana, Vucedol e ceramiche a Besenstrich. Al neolitico invece si associano dei vasi a fondo cavo, decorati con incisioni, pochi frammenti di ceramica impressa e due frammenti di vaso a bocca quadrata.
Un ulteriore scavo, condotto sino all’antico pavimento stalagmitico, ha reso soltanto un radio ed un’ulna di Rhinoceros.
Successivamente la cavità è stata sistemata ricostruendo il tempietto con i calchi delle lapidi, delle arette e dei due banconi laterali. Oggi questo risulta essere l’unico Mitreo in cavità esistente in Italia e quindi costituisce una rarità che andrebbe vieppiù valorizzata.”
L’ENEOLITICO o ETA’ del RAME
GIACIMENTI:
Riparo Zaccaria di Aurisina, la Grotta Caterina, la Cotariova e le Tre Querce, oltre a numerose altre cavità già ricordate per i periodi precedenti.
PERIODO:
Dai 5.000 ai 3.800 anni fa si verifica una recrudescenza climatica, più fresca e umida, chiamata subboreale.
L’AMBIENTE:
La nuova variazione climatica favorisce il ritorno del bosco di latifoglie di tipo centroeuropeo mentre la flora mediterranea trova delle oasi di rifugio lungo il costone carsico. L’animale tipico di questo periodo è il cervo, seguito dal capriolo e dal cinghiale. Tra i predatori c’è il gatto silvestre, la lince, il tasso e la volpe. E’ probabile che talune zone restino scoperte a landa cespugliata o con arbusti. Con le maggiori precipitazioni si riformano gli stagni.
LA VITA:
Continuano a essere frequentate le grotte e i ripari sotto roccia. La scarsità dei manufatti dimostra però che si tratta di una frequentazione saltuaria e per periodi brevi da parte di piccoli gruppi di pastori provenienti sempre dai Balcani, appartenenti a culture che hanno le loro sedi in un villaggio presso Zagabria e in una palafitta sorta nella piana di Lubiana. Evidentemente il Carso è un territorio adatto al pascolo di capre e pecore e questo spiega il nomadismo degli uomini che fruiscono delle grotte come di ricoveri temporanei. In un caso (Grotta dei Ciclami) un cunicolo è stato frequentato a scopo culturale per deporvi delle bellissime coppe graffite e incrostate, contenenti delle offerte fatte a una divinità. Tra i resti di pasto, quelli di capra e pecora sono predominanti, ma sono frequenti anche quelli del cervo e del capriolo.
Nel periodo eneolitico si sviluppano nuove culture in cui socialmente sembrano prevalere i guerrieri. Questo si spiega con l’importanza assunta dal commercio per il reperimento dei primi metalli, quali il rame e lo stagno, richiesti dalle grandi culture urbane dell’Oriente.
L’INDUSTRIA:
I manufatti sono sempre su pietra, osso e corno di cervo. Di selce sono le cuspidi di freccia, con codolo e alette, vale a dire la forma di quelle di rame. Possono essere state usate per la caccia ma mostrano altresì l’indole bellicosa di questi nuovi venuti. In questo periodo i pastori possono anche essere mercanti e predoni nello stesso tempo.
SEPOLTURE:
Nel Riparo Zaccaria è stata scoperta una tomba a inumato in posizione rannicchiata e nella Grotta di Santa Croce la sepoltura di un bambino posto in un grande orcio.
Dolmen, tombe megalitiche, stele antropomorfe: venerdì 24 giugno 2016 ad Aosta, alle 11.30, alla presenza del sottosegretario al Ministero dei beni culturali e del turismo, Ilaria Borletti Buitoni, del presidente della Regione Valle d’Aosta, Augusto Rollandin, dell’assessore regionale alla cultura, Emily Rini, e del sindaco di Aosta, Fulvio Centoz, viene ufficialmente inaugurata l’area megalitica di Saint-Martin de Corleans, un sito megalitico unico in Europa, uno dei siti archeologici più interessanti dell’intero continente che in un allestimento suggestivo e di estremo rigore scientifico racconta ai visitatori 6000 anni di storia dell’uomo dalla cosiddetta aratura sacra del V millennio a.C. alle tombe galliche e romane dei primi secoli della nostra era.
Stele antropomorfa e dolmen dell’area megalitica di Aosta
Il Parco Archeologico di Saint-Martin è un sito di eccezionale importanza scientifica, destinato a rivoluzionare le conoscenze della preistoria europea grazie ai reperti rinvenuti in diversi strati del terreno, capaci di narrare con una forza straordinaria l’evoluzione dell’uomo dal Neolitico all’Età del Ferro: 9.821 metri quadrati di testimonianze dal 4000 al 1100 a.C., monumenti straordinari come il grande dolmen che svetta al centro degli scavi, 45 stele antropomorfe di bellezza e valore ineguagliabile raffiguranti capi guerrieri, eroi o divinità, tombe megalitiche dedicate alle famiglie più influenti della comunità, 24 pali lignei rituali e arature cultuali per consacrare il luogo a santuario a cielo aperto. Ma anche 1200 metri quadrati di spazio espositivo con oggetti di ceramica, macine e macinelli, cereali raccolti dall’uomo della preistoria, oltre a resti umani che raccontano la pratica della trapanazione dei crani in soggetti viventi.
Il parco archeologico di Saint Martin de Corleans alla periferia di Aosta
Il sito archeologico, situato alla periferia occidentale di Aosta, accanto all’antica chiesa di St-Martin de Corleans, da cui ha tratto il nome, oggi si presenta con una copertura architettonica a forma di lanterna, per simboleggiare il lavoro dell’uomo alla ricerca delle proprie origini. È stato realizzato grazie all’impegno dell’assessorato Istruzione e cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta con il dipartimento soprintendenza per i Beni e le attività culturali, una sinergia che ha permesso di concludere un lungo e difficile percorso, durato decenni a causa della vastità del giacimento e della complessità delle indagini archeologiche. È passato infatti quasi mezzo secolo dalla straordinaria scoperta. Era il giugno del 1969 quando, nel corso di scavi edilizi per le fondamenta di una serie di condomini alla periferia occidentale di Aosta, una ruspa urtò un’inusuale lastra di pietra: con grande sorpresa e stupore, si scoprì che si trattava di una stele antropomorfa di più di 4000 anni fa, riusata come coperchio di tomba, rimasta per un tempo lunghissimo a guardia di un mondo inghiottito dalla storia, in attesa di essere riportata alla luce dai discendenti del Terzo Millennio. L’area fu subito acquisita dalla Regione autonoma Valle d’Aosta, che nel 1970 ha dato il via a indagini e scavi più approfonditi, con campagne annuali proseguite fino al 1990, e poi riprese dal 2001 con nuovi sondaggi e operazioni di microscavo.
L’area di Saint Martin de Corleans durante gli scavi negli anni Ottanta del Novecento
Gli scavi hanno raggiunto 6 metri di terreno in profondità, suddivisi in 8 fasi, testimonianza ciascuna di un preciso momento d’uso dell’area. Attraverso la tipologia dei reperti e la datazione al radiocarbonia, è stato possibile seguire le attività svolte dall’uomo dal Neolitico finale (4100–3900 a.C.), documentate da un’aratura rituale e da fosse circolari (“pozzi”) contenenti offerte, a tutta l’età del Rame (3000-2500 a.C.), quando il sito è frequentato come santuario a cielo aperto. I simulacri di culto, tutti orientati secondo criteri ritenuti astronomici, sono inizialmente una serie di pali lignei, forse dei totem, di cui restano solo le fosse di alloggiamento (i resti di ossa di bue incenerite rinvenute alla base confermano lo svolgimento di cerimonie rituali), successivamente lastre monolitiche che riproducono la figura umana, le stele antropomorfe. In seguito l’area è stata utilizzata con funzione funeraria, con l’innalzamento di imponenti monumenti funebri costruiti con megaliti (dal greco grande pietra), come il maestoso dolmen. La funzione funeraria viene mantenuta anche nell’età del Bronzo (2200 – 1600 a.C.) quando le stele sono riutilizzate per costruire tombe a cista (costituite da sei lastre di pietra a formare una sorta di scatola) e nell’età del Ferro, tra i secoli XI e I a.C., con la realizzazione di tombe galliche e romane.
Il suggestivo allestimento che accoglie il pubblico nell’area megalitica di Aosta
Ora chi viene ad Aosta al parco archeologico di St-Martin de Corleans trova una struttura dotata delle più moderne tecnologie, in grado di fondere il rigore scientifico con il potere suggestivo degli allestimenti per offrire ai visitatori un’esperienza sensoriale e cognitiva dal forte impatto emotivo e dall’altissimo valore culturale. Studiosi e grande pubblico possono toccare con mano, in modo estremamente preciso, coinvolgente e realistico, la vita dei nostri antenati più lontani per mezzo di un corridoio spazio-temporale che riporta l’orologio della storia indietro di 6000 anni, e grazie a un avveniristico impianto di 500 luci che riproduce l’atmosfera del giorno e della notte nella preistoria, oltre a touch screen, raggi laser e grafica ricostruttiva, che completano e valorizzano monumenti e reperti lungo un inedito e affascinante percorso informativo museale. “Il giacimento archeologico di Saint Martin de Corléans ha un’eccezionale importanza scientifica mondiale: le conoscenze della preistoria europea sono state rivoluzionate dalla ricostruzione storica e culturale dell’area megalitica aostana”, dichiara il soprintendente ai Beni Culturali della Valle d’Aosta Roberto Domaine. “D’ora in poi scienziati, studenti e grande pubblico non potranno più fare a meno di venire qui per conoscere le ultime, determinanti scoperte sulla preistoria recente”.
Ricerche archeologiche alle sorgenti del Brembo:
ricognizioni e scavi in Val Camisana
(Carona, Bergamo) tra il 2009 e il 2017
Enrico Croce – Diego Veneziano – Lorenzo Castellano
Erano pastori, erano cacciatori, forse mercanti, forse soldati. Salivano quassù e pregavano. Cinquecento anni prima di Cristo. Qualcuno di loro incideva un disegno, un graffito sulla pietra. Quassù, sui pascoli dell’Armentarga, fra i 2.100 e i 2.400 metri di quota, sopra Carona, sopra il Rifugio Longo, appena oltre il Passo della Selletta. La notizia delle incisioni rupestri in Alta Val Brembana venne resa pubblica nell’estate del 2007. Da allora le ricerche sono proseguite.
Dice l’archeologa Stefania Casini: «Le segnalazioni sono arrivate nel 2005 da appassionati escursionisti della Val Brembana da Francesco Dordoni e da Felice Riceputi, esperto di storia locale. Andammo a verificare, rintracciammo un grande masso con numerosi graffiti, fra i quali due scritte estese in quello che ci rendemmo conto era l’alfabeto nord etrusco. Affidammo le scritte a un esperto, il professor Filippo Motta, docente di linguistica alla Normale di Pisa. Motta ci raggiunse quassù per rendersi conto di quanto avevamo trovato».
Per arrivare ci si incammina a Carona, si tocca il rifugio Longo, poi si sale al lago del Diavolo, sotto la piramide nera del Monte Aga. Da qui si prende un sentiero impervio che porta al Passo della Selletta: dal passo lo sguardo spazia sui pascoli alti dell’Armentarga, accessibili soltanto nella bella stagione, un anfiteatro dominato dal Diavolo, Grabiasca, Poris, vette che sfiorano i tremila metri. È un luogo di grande suggestione, dominano il verde del pascolo, il nero delle grandi vette, l’azzurro del cielo. C’è un senso di sacro in questo posto. Lo stesso senso religioso che forse hanno respirato quegli uomini che due-tremila anni fa si spingevano quassù. Il primo masso con una scritta si trova appena oltre il passo, un masso bianco, liscio come una lavagna. Si leggono diverse frasi, non particolarmente antiche.
«Tra gli elementi interessanti se ne segnala uno particolare: le scritte e i segni partono da diversi secoli prima di Cristo e arrivano praticamente ai nostri giorni», racconta Stefania Casini. Tra le prime scritte che s’incontrano c’è questa: «Vincenzo Bigoni di Ludrigno, 24 agosto 1742». Sullo stesso masso si notano disegni geometrici, stelle, nodi di Salomone, stelle a cinque punte. Simboli magici in un posto che è magico, dominato dall’azzurro, con le torbiere e i piumini bianchi come fiocchi di neve, qui attorno.
«All’inizio trovammo due scritte che si facevano risalire al II e III secolo avanti Cristo – spiega Stefania Casini -. Ne abbiamo scoperte molte altre, adesso siamo a quaranta scritte che risalgono all’età del ferro, scritte in nord etrusco e anche precedenti, in alfabeto camuno. Abbiamo appurato che in questa zona sono passati i Camuni e successivamente i Celti prima che arrivassero i Romani. Non riusciamo a tradurre il camuno perché non possedevano una lingua indoeuropea, probabilmente erano popolazioni autoctone. Le scritte dei Celti riusciamo invece a interpretarle: abbiamo trovato diversi nomi propri come Ilus, Busos, “Ateriola figlio di Niako”, e abbiamo pensato che nei paesi di questa zona è in effetti molto diffuso il cognome Arioli, forse esiste un nesso. Ma le ricerche che abbiamo effettuato con i carotaggi a cura del Cnr hanno messo in evidenza come questa zona fu frequentata dagli uomini già dall’età del rame, ovvero circa il 2.800 avanti Cristo. Arriviamo più o meno al periodo di Oetzi, il cacciatore che venne rintracciato mummificato al ghiacciaio di Similaun e che ora si trova nel museo di Bolzano».
I massi con i graffiti sono diverse decine in un’area di diverse centinaia di metri quadrati. Tra le rocce la più interessante è quella con la scritta in alfabeto Camuno. In quella zona gli archeologi hanno effettuato degli scavi e hanno scoperto dei chiodi in ferro di periodo romano, un «aes rude», sorta di pre-moneta in metallo, e una fibula in bronzo datata attorno al V secolo a. C., in sintonia con il tipo di disegno trovato sul masso, che riporta alla cultura druidica: una piccola figura di offerente e la scena con un personaggio con cappello a larghe falde, lunga tunica e cintura romboidale, circondato da due o tre lupi a fauci aperte. Questo elemento, insieme alle scritte ritrovate, fa pensare che nella zona si celebrasse il culto al dio celtico Pennino, divinità dei passi e delle vette.
Ma perché qui? Che cosa custodivano questi luoghi, al di là dei pascoli estivi? A questi interrogativi risponde Stefania Casini: «La scoperta di iscrizioni di Camuni e Celti avvalora l’importanza del passo di Valsecca, a poca distanza da questi luoghi, nell’ambito dei percorsi montani d’alta quota. Le iscrizioni rinvenute, i riferimenti al dio Pennino in alfabeto nord-etrusco, alcuni pezzi di metallo che possono venire considerati come pre-monete probabilmente lasciati in senso votivo sul luogo, sono tutti elementi che fanno pensare a questa zona, e in particolare al più grande dei massi incisi nella Val Camisana, come a un santuario, una zona sacra frequentata da pastori e cacciatori e forse anche percorsa da commerci. Era questa la via che metteva in comunicazione Val Seriana e Val Brembana, una via secondaria, ma molto frequentata».
Cacciatori, pastori, commercianti: nelle valli bergamasche del V secolo a. C. si camminava, si viaggiava, si comunicava. E si pregava. Si chiedeva al dio Pennino di concedere un viaggio sicuro e sereno, al riparo dai fulmini, dalle frane, dai lupi, dagli orsi.
Nel 2019 e’ stato eseguito un calco per facilitare lo studio e la conservazione del reperto
Inaugurato il calco del masso della Val Camisana
È stato inaugurato sabato 28 luglio a Carona il calco del masso archeologico denominato “Camisana 1”, una grande roccia della superficie di circa 30 metri quadrati, situata in Val Camisana, lungo le pendici meridionali del Monte Aga, sul sentiero che porta al rifugio Calvi, tra quota 2100 e 2400 m s.l.m. Il calco, fortemente voluto dal Centro Storico Culturale Valle Brembana, è stato eseguito dalla società Ambracore s.n.c. non senza difficoltà, considerata la dimensione del monumento, la quota a cui si trova e la distanza da strade percorribili con mezzi idonei al suo trasporto. Il progetto viene incontro a una serie di esigenze, tra cui quella di rendere più agevole lo studio, quella di mostrare il monumento a un pubblico più vasto e, non ultima, quella di fissare ad oggi lo stato di conservazione del masso, che purtroppo è esposto a un più o meno lento degrado nel suo ambiente naturale. Il calco è stato collocato di fianco alla chiesa parrocchiale ed è stato dedicato a Felice Riceputi, che insieme a Francesco Dordoni, colse per primo l’importanza dell’intero comprensorio di incisioni rupestri. La felice collaborazione tra il Centro Storico Culturale Valle Brembana, il Comune di Carona e il Civico Museo Archeologico di Bergamo, con il contributo della Famiglia Riceputi e del Consorzio BIM Bergamo, non solo ha permesso di valorizzare un monumento unico in tutta Europa, ma anche di ricostruirne la storia, attraverso lo studio e la ricerca archeologica, restituendogli il significato che ha avuto attraverso i secoli. Alle ore 16,30, nel salone parrocchiale, sono stati presentati i lavori di esecuzione del calco e della restituzione della copia, identica all’originale. La riunione si è aperta con saluto di Giancarlo Pedretti, sindaco del comune di Carona, che ha coperto buona parte dei costi per la realizzazione del calco. È seguito l’intervento di Tarcisio Bottani, presidente del Centro Storico Culturale Valle Brembana, che ha promosso e sostenuto la realizzazione del calco, nel nome del compianto presidente Felice Riceputi. Si è conclusa con la relazione della direttrice del Civico Museo Archeologico di Bergamo, Stefania Casini, che ha illustrato gli aspetti tecnici e il significato culturale dell’iniziativa, e con quella di Filippo Motta docente di Filologia celtica dell’Università di Pisa, che si è soffermato sugli aspetti paleolinguistici connessi con le iscrizioni. Il masso è un vero e proprio monumento, per le sue dimensioni, la posizione dominante sulla valle e il ricco repertorio figurativo di età storica e protostorica. Le figure più antiche, databili al V secolo a. C., sono di due lupi a fauci aperte, rivolte verso un personaggio con lunga tunica e cappello a larghe falde; della stessa epoca una piccola figura di offerente posto di profilo. Alcune iscrizioni, incise con l’alfabeto leponzio, o di Lugano, che ha tratto i propri segni da quello etrusco, sono di nomi propri, talvolta abbreviati. Due iscrizioni riportano il nome di Pennino, il dio celtico delle vette e protettore dei valichi di montagna. Si datano tra il III e il I secolo a.C. Il masso Camisana 1 era probabilmente un piccolo santuario naturale sotto le vette e presso le sorgenti del Brembo. La presenza di centinaia di iscrizioni preromane fanno del masso un monumento del tutto unico non solo in Italia, ma in tutto il mondo celtico europeo. Reportage fotografico (clicca QUI)
È un «racconto di pietra» sempre più ricco della pianura bresciana al tempo dell’integrazione tra Celti e Romani quello che emerge dagli scavi archeologici nell’area della Pieve di Orzivecchi. Un racconto che ora fa riemergere il culto anche romano della divinità celta Borgolio. A lui è infatti dedicata l’ara riportata alla luce nel corso dell’indagine promossa lo scorso autunno dalla parrocchia e dall’associazione Amici della Disciplina, e condotta dagli archeologi Alex Verdi e Alberto Crosato sotto la direzione di Sandro Guerini e la supervisione del sovrintendente Andrea Breda. «L’ara sacrificale del primo secolo dopo Cristo, in marmo di Botticino e del peso di circa 5 quintali, è dedicata al dio Bolgolio e presenta nella parte superiore evidenti segni di bruciature dovuti al fuoco che veniva acceso per bruciare incensi e altri doni – spiega il presidente degli Amici Giuseppe Busetti -. Sulla facciata dell’altare si legge la dedica alla divinità da parte di Terzo Donnedo, figlio di Tertullo, conclusa dalle iniziali della formula V.S.L.M. (votum solvit libens merito)». «L’IPOTESI più verosimile, accreditata da Gian Luca Gregori dell’Università La Sapienza di Roma, afferma che Bolgolius era una divinità celtica locale dei commerci – prosegue Busetti -. Quanto alla famiglia Donnedo era certamente di origine celtica, e i suoi membri non erano cittadini di Roma, ma facevano parte della nobiltà celta presente prima che l’Italia settentrionale entrasse nell’orbita di Roma. Queste famiglie erano chiaramente integrate nell’impero, ma erano anche fedeli alle loro tradizioni e ai loro dei, che convivevano con le nuove divinità latine». Il culto per Bolgolio sarebbe proseguito in questa parte della Bassa fino all’avvento del cristianesimo, quando venne eretta la Pieve di Bigolio. «A Orzivecchi – continua Busetti -, sulle rovine del tempio pagano i cristiani costruirono la loro Pieve utilizzando il cippo celta come pietra angolare del nuovo edificio, ma ponendo la scritta rivolta verso il suolo in segno di disprezzo per la vecchia religione». La scoperta dell’ara apre anche la via a una nuova interpretazione sull’origine del termine Bigolio, che finora gli storici facevano derivare da «Vicus Ollei», ossia villaggio del fiume Oglio. Vista l’assonanza dei due termini, il toponimo potrebbe invece derivare appunto da Borgolio, anche se pare difficile che i cristiani abbiano scelto un nome pagano per il luogo in cui, secoli dopo la posa dell’altare, è nata la pieve. •