Area CAPITOLIUM Brescia Cenomane – da Brixia e le genti del Po’ GiuntiArea CAPITOLIUM Brixia fino all’ etá augustea da Brixia e le genti del Po’ Giunti
Il territorio attorno a Brescia e al Lago di Garda si presenta come un osservatorio privilegiato per lo studio di interazioni tra popoli già dal primo apparire della documentazione epigrafica, in età preromana. Tale vocazione, quella dello scenario di etnie multiple, si configura anche nell’età della romanizzazione, con modalità ben indagate e in gran parte già defi nite dagli studiosi. L’individuazione di ethne a partire dalla documentazione esistente non è però sempre di immediata evidenza, e porta spesso ad una sospensione del giudizio piuttosto che ad una soluzione univoca. In questa sede cercherò di inquadrare fenomeni nel loro complesso già noti, come quelli che emergono dall’epigrafia e dall’onomastica, avvalendomi di strumenti «in dotazione» alla linguistica, come la sociografia, la neurolinguistica, la linguistica del contatto e l’etnolinguistica, per proporre al confronto critico nuove categorie di analisi. Dalla focalizzazione di alcuni documenti, in parte anche nuovi, vedremo anche emergere e delinearsi meglio una delle compagini che solitamente, negli studi sulla regio X, rimane di difficile identificazione: la componente camuna.
II. Lo scenario storico regio X, in particolare nella zona attorno a Brescia e al lago di Garda (1).
Il processo di assimilazione e acculturazione, come sappiamo, non fu per questa parte dell’Italia cruento e repentino, ma progressivo e lento. La strategia politica adottata da Roma verso queste popolazioni fu di rispetto delle autonomie e delle strutture socio-politiche esistenti, di cui «venivano conservate la compattezza, l’autonomia, e fi n dove possibile l’indipendenza e la stabilità demografica» (2).
Riassumo brevemente i termini cronologici:
− fine V-inizi IV sec. a.C.: inizia l’occupazione cenomana di Brixia, che conosce anche la sua prima fase urbana;
− 225 a.C. durante la guerra Gallica i Cenomàni (che ormai occupano il territorio di Brescia) e i Veneti si alleano con i Romani inviando 20.000 soldati contro le altre popolazioni celtiche;
− durante la guerra annibalica i Cenomani sono alleati di Roma insieme ai Veneti, Taurini e Anamari;
− 200 a.C. i Cenomani appoggiano gli Insubri e i Boii devastando Placentia e puntando in seguito su Cremona;
− 197 a.C. grazie all’intervento diplomatico del console C. Cornelio Cetego presso i vici Cenomanorum e presso la stessa Brixia, la rivolta rientra e i Cenomàni abbandonano gli Insubri che vengono vinti; si stipula un foedus tra Roma e i Cenomàni;
− 89 a.C. Lex Pompeia Strabonis de Transpadanis concede lo ius Latii a tutte le popolazioni della Gallia Cisalpina, compresi i Cenomani;
− 51-49 a.C. con la Lex Roscia viene ratifi cata la cittadinanza romana alle popolazioni celtiche e italiche della Cisalpina (Transpadani); Brixia diventa municipium;
− età augustea (16/15 a.C.): adtributio delle popolazioni nella Val Sabbia e della sponda occidentale del Lago di Garda (Sabini e Benacenses); adtributio a Brixia anche dei Trumplini e dei Camunni (campagna militare di P. Silio Nerva);
27 a.C. (oppure 14 a.C. e comunque non dopo l’8 a.C.) Brixia si fregia del titolo di colonia civica Augusta.
− tra 79 e 89 d.C. Benacenses e Trumplini sono in stato di inferiorità giuridica rispetto ai Bresciani (3).
Particolare della statua di Minerva dal santuario di Breno(BS)
In questo quadro di progressivo adeguamento della componente etnica locale al mondo romano, spicca la tendenza all’autonomia dei Camunni, che pur dopo l’adtributio e la concessione della civitas, si costituiscono come res publica separata da Brescia e vengono ascritti per la maggior parte alla tribù Quirina.
Questa situazione, che ha come sfondo un intenso spostamento di persone dal centro Italia e dal Sud verso Nord, nella Gallia padana e Cisalpina (4), porta alla creazione di popolazioni miste, che uniscono componenti più tipicamente italiche o centro italiche a quelle celtiche, venetiche, retiche o camune.
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BERGAMO – Il MUPRE, Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica, ospita dal 12 febbraio al 29 maggio 2022, la mostra “Uno sguardo oltre le Alpi”, a cura di Maria Giuseppina Ruggiero, direttrice del Museo e Emanuela Daffra, Direttore regionale Musei Lombardia, che propone un corposo nucleo di reperti archeologici concessi in prestito dal Museo Nazionale di Zurigo.
Si tratta di armi, utensili, vasellame e oggetti di ornamento, collocati lungo un arco temporale che dal Neolitico giunge sino all’età del Ferro.
Da villaggi palafitticoli neolitici giungono al MUPRE utensili, che hanno rispondenze con quanto raffigurato nelle incisioni rupestri della Valle Camonica, famosa in tutto il mondo per il suo straordinario complesso di raffigurazioni incise sulle rocce, in gran parte risalenti alla Preistoria.
In esposizione, di grande suggestione, ci sono le placche di cintura in lamina di bronzo provenienti da sepolture femminili di VI e V sec. a.C., decorate con raffigurazioni simboliche che alludono al viaggio. Rimane ancora indecifrata invece l’iscrizione che compare su uno straordinario elmo dell’età del Ferro.
Le placche da cintura di forma fogliata erano un tipico ornamento dell’abbigliamento delle donne dei Leponti. Arbedo-Cerinasca, Tomba 93, V sec. a.C.
“Leggere questi reperti provenienti da scavi in Svizzera accanto alle coeve testimonianze della nostra Valle Camonica custodite al MUPRE dimostra, una volta di più – afferma Emanuela Daffra – come la cerchia alpina, con le sue alte vette, non fosse di impedimento alla circolazione di modelli, e di popolazioni, tra i due versanti. Ma suggerisce anche confronti stimolanti, che aiutano a completare le nostre conoscenze di quei periodi tanto lontani”.
“La concessione di questi preziosissimi reperti da parte del Museo Nazionale di Zurigo – sottolinea Maria Giuseppina Ruggiero – è il frutto delle collaborazioni che il nostro museo sta instaurando con diverse istituzioni museali europee. All’interno di questa rete di rapporti, tre nostre stele sono state protagoniste a Zurigo della recente mostra “Uomini scolpiti nella pietra” dedicata alla diffusione in Europa, a partire da sei mila anni fa, di statue, statue-stele e massi-menhir attraverso i quali sono raccontati i profondi cambiamenti economici e sociali avvenuti tra il IV e il III millennio a.C. Immagini di uomini e donne della nuova élite che, dopo la morte, sono venerati come antenati e considerati eroi o anche divinità.
Una serie di nuove e importanti scoperte è stata portata alla luce in territorio di Flaccanico, frazione di Costa Volpino, dall’archeologo camuno Ausilio Priuli. Decine di rocce graffite che potrebbero presto dare il via ad una stagione di ricerche in una zona dove storicamente pochi studiosi si erano spinti a cercare. Situate principalmente su due diversi speroni di roccia distanti alcune decine di metri l’uno dall’altro, le incisioni individuate si trovano sullo strato della cosiddetta «Formazione di Wengen», una delle unità del Triassico medio-superiore più conosciute delle Alpi Meridionali.
«Sono convinto che questo sia solo l’inizio, qui nessuno ha mai fatto ricerca» racconta Priuli. Dalle rocce, coperte in parte dalle incrostazioni di licheni e in parte da accumuli di materiale, emergono straordinari frammenti storici e preistorici: dai segni dovuti all’affilatura delle armi alle coppelle (piccole conche rotondeggianti), fino ad arrivare a incisioni più strutturate come il «filetto», o «triplice cinta», un simbolo composto da tre quadrati concentrici uniti da tratti di intersezione perpendicolari.
«Secondo le interpretazioni di oggi raffigurerebbe la scacchiera di un gioco da tavolo, ma originariamente doveva avere qualche altro significato e infatti si parla di “triplice cinta” in riferimento alla “triplice cinta druidica”, in pratica il percorso per raggiungere il centro e quindi la conoscenza» spiega ancora l’archeologo.
Incisioni con segni geometrici
Tra i segni che percorrono lo strato roccioso emerge anche una croce. «Dall’incrostazione che la copre non è tanto recente. Le croci venivano incise per cristianizzare quei luoghi ritenuti legati ai culti pagani». Carico di valore simbolico e sacrale era certamente lo «scivolo della fertilità», una pietra di origine naturale utilizzata in un rito di fertilità preistorico, qui rinvenuto proprio a pochi metri dalla croce. Secondo una credenza precristiana, scivolare sopra queste pietre lisce permetteva di guarire o prevenire la sterilità.
«Questo è antichissimo – spiega Priuli –, per essere così liscio e lucente lo è senza dubbio. Si dovrebbe scavare nel terreno perché probabilmente continua sotto l’accumulo di materiale di almeno un altro metro». Lo scivolo è a sua volta coperto da graffiti, alcuni relativamente recenti di persone che venivano a scivolare e hanno lasciato le proprie iniziali, il che lascia pensare che la ritualità sia perdurata a lungo anche in epoca storica. Altre tracce del passato aspettano di essere scoperte e documentate. Adesso la volontà è quella di continuare le esplorazioni e di intraprendere un progetto di valorizzazione. «Una segnalazione ufficiale alla Soprintendenza dei Beni Archeologici è stata fatta. Ci sono centinaia di graffiti ancora da scoprire e la prima cosa da fare sarebbe quella di intervenire e pulire le rocce per studiare quanto rinvenuto».
Camminando lungo sentieri anche conosciuti, non sempre si ha la consapevolezza che in altri tempi, molto lontani da noi, questi luoghi possano essere stati testimoni della storia dei primi uomini. Lo sono state certamente le strade di Flaccanico, come dimostrano i segni incisi da millenni sulle sue rocce che ogni giorno, per poche ore del mattino, tornano a risplendere sotto la luce radente del sole.
Il sito di Bard all’incirca all’Età del Rame (metà IV – fine III millennio a.C.). Per quanto riguarda gli scivoli, questi appartengono ad un’epoca successiva, dal momento che hanno parzialmente cancellato le figure a cui sono sovrapposti.
Scivolo della fertilità
Un rito di fertilità è un rituale religioso che rimette in scena un atto sessuale o un processo riproduttivo. Già nelle pitture rupestri erano rappresentati animali in procinto di accoppiarsi. Tale raffigurazione la possiamo considerare come un rito di fertilità magica. Queste ritualità avevano lo scopo di assicurare la fecondità della terra o di un gruppo di donne. Inizialmente il culto della fertilità era legato alla Grande Madre, generatrice e portatrice di fecondità. L’uomo primitivo rappresentava la Madre come una donna formosa con il ventre marcato per simboleggiare la fertilità.
A partire dal VIII millennio prima della nascita di Cristo si assiste alla proliferazione di raffigurazioni femminili legate al culto della fertilità. Il passo successivo è legato all’acquisizione del valore miracoloso della roccia. In questo contesto si inserisce lo studio legato agli scivoli della fertilità, massi utilizzati dalle donne che desideravano procreare.
Perché le pietre? Per la coscienza religiosa dell’uomo primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una rivelazione del divino. La pietra è, rimane sempre se stessa, perdura nel tempo e colpisce. Ancora prima di afferrarla per colpire, l’uomo urta contro la pietra, non necessariamente con il corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La pietra gli rivela qualcosa che trascende la precarietà dell’esistenza umana.
L’uomo primitivo non adorava la pietra in quanto tale ma per quello che incorpora ed esprime. Molto spesso il rito di fertilità era un rituale sessuale basato sull’adorazione della pietra come organo sessuale maschile in stato di erezione. L’usanza detta scivolata è nota: per avere figli le donne scivolavano lungo una pietra consacrata. Nel caso in cui non scivolassero, giravano attorno ad essa o sfregavano le parti intime sulla dura roccia.
Abbiamo smarrito questi concetti? In Storia delle Religioni si utilizza un termine che permette di comprendere i passaggi successivi, il sincretismo. Tale terminologia indica un complesso di fenomeni e concezioni costituite dall’incontro di forme religiosi differenti. Il cristianesimo si è accaparrato alcune rappresentazioni della fertilità.
Come può essere avvenuto? Inizialmente la Chiesa ha combattuto queste usanze. Si citano numerosi divieti del clero e del Re, nel Medioevo, contro il culto delle pietre e specialmente contro l’emissione di sperma davanti alle rocce. La loro sopravvivenza malgrado le pressioni del clero è prova del vigore di tali pratiche. Quasi tutte le altre cerimonie relative a pietre consacrate sono scomparse. Rimane soltanto quel che avevano di essenziale: la fede nella loro virtù fecondatrice. Con il trascorrere del tempo la credenza non si basò sulla considerazione teorica della pietra, ma fu giustificata da leggende recenti o interpretazioni sacerdotali. Esempi possono essere rappresentati dal santo che si fermò a riposare su una determinata roccia o dalla visione di un santo o della Madonna su una pietra.
Alcune di queste pietre furono inglobate nelle chiese nascenti per eliminare il culto antico. Un caso eclatante è quello di Londra: ancora nel 1923 le contadine che andavano nella capitale abbracciavano alcune colonne della cattedrale di San Paolo per avere figli.
Altre leggende sono nate di recente, come quella inerente la sedia della fertilità che si trova nella chiesa di Santa Maria Francesca delle Cinque piaghe a Napoli. La sedia è quella dove solitamente si appoggiava Maria Francesca per riposare e trovare sollievo mentre alleviava i dolori della passione. Il rituale di sedersi e rivolgere una richiesta di grazia alla santa è seguito dalle donne sterili che desiderano il concepimento di un figlio. Il caso nacque nel Settecento riuscendo a resistere sino ai giorni nostri.
Un altro caso rilevante è quello relativo al Santuario di Oropa in Piemonte. Nelle cronache relative alla fondazione del santuario si narra che la statua della Madonna Nera fosse stata nascosta da Sant’Eusebio sotto un masso erratico per impedire che cadesse nelle mani degli eretici. Sopra tale masso, nel Settecento, fu eretta la prima cappella. La chiesa vecchia di Oropa fu costruita inglobando un secondo masso erratico detto Roc ‘dla vita, masso della vita. La pietra era nota per essere oggetto di culti pagani legati alla fecondità.
Il ricorso agli scivoli delle donne o delle fertilità è attestato ancora alla fine del XIX secolo. Nel 1884 Giovanni Roggia di Varzo, comune della provincia di Verbania, in occasione dell’inaugurazione del rifugio alpino dell’Alpe Veglia invitava all’uso delle acque minerali con la seguente affermazione: “alle donne che non hanno la buona sorte d’avere eredi, invece di andare in pellegrinaggio da una madonna all’altra e sfregarsi il sedere sulle pietre miracolose cercando grazie, sappiano che con l’acqua minerale che abbiamo qui vicino potranno avere figli in abbondanza”.
Anche a Sebillot, nei pressi di Carnac in Francia, avveniva qualcosa di similare: “Verso il 1880 due coniugi sposati da parecchi anni e che non avevano figli, si recarono, alla luna piena, presso un menhir; si spogliarono e la moglie cominciò a girare intorno alla pietra, cercando di sfuggire all’inseguimento del marito. I genitori si erano messi di guardia nelle vicinanze per tenere lontano i profani”. Questo caso è più complesso: innanzitutto è da ricordare il periodo dell’accoppiamento, plenilunio, che indica tracce di culto lunare; poi l’accoppiamento dei coniugi e l’emissione di sperma davanti alla pietra si spiegano con il concetto delle nascite dovute alle pietre corrispondenti a certi riti di fecondazione della pietra.
La teoria tradizionale del rito di fertilità legato ai massi delle donne fu sostituito, o almeno contaminato, da una nuova teoria. Esempio è l’usanza, viva ancora oggi, di far passare il neonato per il foro di una roccia. Indubbiamente questo si riferisce a una rinascita, a un rito di passaggio.
Un caso emblematico di culto delle pietre forate è quello relativo alla sacra roccia di San Vito, megalite inglobato nel centro del pavimento di un luogo cristiano dedicato a San Vito nel paese di Calimera in provincia di Lecce. La sacra pietra è meta di visite tutto l’anno. Il lunedì dell’angelo le persone attraversano la roccia per ottenere vantaggi spirituali, tra cui la propiziazione della fertilità. Il buco della pietra rievoca l’organo sessuale femminile e l’attraversamento è una chiara e lampante metafora sessuale.
L’idea implicita in tutti questi riti è che certe pietre possano fecondare le donne sterili, ma la teoria che diede origine a queste pratiche e la giustificò, non sempre si è conservata nella coscienza di chi ancora continua a osservarle.
Bibliografia ( da Wikipedia):
(FR) B. Reber, Les Gravures pédiformes sur les monuments préhistoriques et les Pierres à glissades, Bulletin de la Société préhistorique française, numero 7, volume 9, 1912, pp. 470-478.
F. Copiatti e A. De Giuli, Sfregarsi sulle pietre miracolose cercando grazie. Gli scivoli della fecondità: usanza femminile di origine preistorica, in Domina e madonna. La figura femminile tra Ossola e Lago Maggiore dall’Antichità all’Ottocento, Mergozzo, 1997.
(DE) Hans Haid, Mythos und Kult in den Alpen: Ältestes, Altes und Aktuelles über Kultstätten und Bergheiligtümer im Alpenraum, ed. Tau, Bad Sauerbrunn, 1990, ISBN 3-900977-08-9
Brescia – Statue, ritratti, amuleti carichi di valenze simboliche. L’incontro tra i Romani e gli antichi Camuni si racconta nel nuovo museo Archeologico nazionale della Val Camonica, pronto a inaugurare il prossimo 11 giugno a Cividate Camuno, a una sessantina di chilometri da Brescia.
Siamo nell’antica Civitas Camunnorum, nella Valle Camonica romana, una delle realtà archeologiche più sorprendenti di tutto l’arco alpino. In questo straordinario scrigno che esemplifica la romanizzazione di un territorio attraverso siti e testimonianze archeologiche, il visitatore avrà la possibilità di seguire la presenza romana declinandola nei suoi aspetti più diversi, dalla trasformazione del territorio ai culti, dalla vita quotidiana agli spazi pubblici, alla sfera funeraria.
“Il nuovo museo – spiega Emanuela Daffra, direttore regionale Musei Lombardia del Ministero della Cultura – si estende su spazi quadruplicati rispetto alla vecchia sede e potrà accogliere in modo finalmente adeguato i reperti già esposti a partire dal 1981 in un primo Museo Archeologico, oggi troppo angusto, oltre che dare spazio a un patrimonio in continua crescita, confermando la ricchezza vitale della ricerca archeologica e il dinamismo dei musei che la raccontano”.
Pavimento a mosaico dalle terme dell’antica Civitas Camunnorum, con motivi geometrici a tessere colorate, I-II d.C., Cividate Camuno, Museo Archeologico nazionale della Valle Camonica
Un viaggio tra gli antichi romani delle Alpi Un museo della romanizzazione delle Alpi. Ecco come si presenterà ai visitatori il nuovo scrigno d’arte della Valle Camonica, che guarderà anche ai luoghi limitrofi, aiutando il pubblico a contestualizzare i ritrovamenti della Valle nel quadro più ampio dell’arco alpino. Attraverso un viaggio in otto tappe, tante sono le sezioni del nuovo allestimento, il visitatore è invitato a immergersi tra i materiali di età romana rinvenuti a Cividate Camuno e nel territorio. Una ricca collezione epigrafica – accanto a corredi funerari dalle necropoli, pendenti e amuleti anche in oro e argento – incontra oggetti d’eccezione, come la porta carbonizzata in legno risalente al II-I secolo a.C., ritrovata a Pescarzo di Capo di Ponte, una delle meglio conservate per il periodo di tutto l’arco alpino. Tra i “fiori all’occhiello” del museo, la statua della dea Minerva, in marmo greco, dal santuario di Breno, e la statua in marmo locale di Vezza d’Oglio (alta Val Camonica) raffigurante un personaggio maschile ritratto in posa eroica.
Statua di Minerva in marmo pentelico rinvenuta nell’aula centrale del santuario di Breno (BS), loc. Spinera, Cividate Camuno, Museo Archeologico nazionale della Valle Camonica
Un punto di partenza per scoprire la Valle dei Segni Una piccola area archeologica, di recente valorizzata nel cortile interno del museo, offre uno sguardo sulla città antica. Il nuovo edificio si appresta così a diventare per visitatori e appassionati il punto di partenza e di arrivo del percorso della Valle Camonica romana che a Cividate Camuno trova altre significative tappe nell’area del foro, nel Parco Archeologico del teatro e dell’anfiteatro e, non lontano, nel Parco Archeologico del Santuario di Minerva in località Spinera di Breno.
La visita al Museo diventa così una tappa importante per la scoperta di quella Valle dei Segni – che trova il suo fulcro nella Valle Camonica – dove la millenaria tradizione delle incisioni rupestri offre lo spunto per un viaggio attraverso uno degli itinerari archeologici più affascinanti dell’arco alpino.
Alla scoperta degli antichi Camunni Conosciuta in tutto il mondo per la sua arte rupestre – primo Sito Unesco italiano nel 1979 – la Valle Camonica incanta con il suo patrimonio archeologico di epoca romana. Alla vigilia della romanizzazione il territorio era abitato dalla popolazione alpina dei Camunni, nota per l’impiego di un’originale forma di scrittura, ma soprattutto per l’abitudine millenaria di incidere sulle rocce. La straordinaria storia di questo popolo trova voce tra numerosi ritrovamenti, oggi in parte visibili in aree e parchi archeologici, che coniugano archeologia e arte rupestre.
Alla fine del I sec. a.C., la Valle entra a fare parte dell’Impero romano. La Civitas Camunnorum, destinata a diventare il centro politico di riferimento, nasce proprio dove oggi sorge l’abitato di Cividate Camuno. Dopo un’iniziale dipendenza da Brescia, alla fine del I sec. d.C., il territorio diventa Res Publica Camunnorum, guadagnandosi piena autonomia politica, giuridica e amministrativa. Della città sono stati riportati alla luce le terme, resti consistenti del foro, diverse domus, le necropoli e il quartiere degli edifici da spettacolo, con un teatro e un anfiteatro. Il nuovo museo segna così un significativo punto di partenza per la scoperta della Valle dove è possibile ammirare numerosi altri contesti archeologici, dai luoghi di culto alle necropoli. Un’occasione per ricostruire il quadro del territorio tra l’età del Ferro e quella romana, attraverso quelle trasformazioni scaturite dall’incontro tra la cultura camuna e quella romana.
Statua in marmo locale di Vezza d’Oglio (alta Valle Camonica) raffigurante un personaggio maschile ritratto in posa eroica, forse un giovane principe della famiglia imperiale. Datata ad età giulio-claudia, proviene dall’area del foro dell’antica Civitas Camunnorum. I-II d.C, Cividate Camuno, Museo Archeologico nazionale della Valle Camonica.
La sagoma creata dalla luce solare sulla cima del Pizzo Badile
Probabilmente gli antichi Camuni conoscevano bene quello che oggi è identificato come un magico gioco di luci creato dal Sole al tramonto, e che allora veniva letto come un messaggio divino. La sagoma di un cervo, associato al dio Cernunnos, si disegna da millenni sulla ripida parete quasi sulla sommità del Pizzo Badile, e pochi giorni fa anche Mariella Avanzini, artista ceramista di Cedegolo, l’ha scorta dal balcone di casa sua a Breno. Ha visto una macchia scura che si modificava e che «si ingrandiva, prendeva la forma di un grande animale dalle lunghe corna». Aiutandosi con un cannocchiale ha potuto vedere nitidamente che «si trattava di quella figura che si manifesta solo con una particolare inclinazione dei raggi solari, facendo risaltare sulla roccia l’animale sacro agli antichi Camuni».
Le corna del cervo sono visibili sul capo della divinità raffigurata in grandi dimensioni sulla roccia numero 70 di Naquane, assieme a un orante che porta un bracciale al braccio destro e impugna un coltello. E adesso, grazie ad Avanzini c’è anche una riproduzione del suggestivo effetto ottico. • da “Brescia oggi”
Una nuova sensazionale scoperta è stata portata alla luce in territorio di Cogno dall’archeologo camuno Ausilio Priuli. Una roccia graffita con una scena di caccia inedita persino in Valcamonica: un cane con la bocca spalancata che azzanna un cinghiale.
Il rinvenimento è stato fatto seguendo lo strato della Formazione di Wengen, che comincia poco a Nord di Cogno.
Una volta giunto ai piedi del torrente Trobiolo, percorsi una cinquantina di gradini della famosa Scala della Madonnina, il ricercatore si è imbattuto in quattro «nuove» superfici incise, tra cui spicca il momento di caccia che ritrae il suide predato. In Valle esistono pochissime scene di caccia al cinghiale: sulle composizioni monumentali di Cemmo, ad esempio, oppure nel Parco di Seradina Bedolina a Capo di Ponte, dove però non sono rappresentati i cacciatori.
«Si tratta di una scoperta straordinaria, di un naturalismo e di un verismo che lasciano senza fiato – racconta Ausilio Priuli -. Il cane ha la bocca spalancata e sembra ci sia anche l’indicazione dei canini, mentre il cinghiale cerca di scappare. Il dettaglio forse meno visibile che però ci ha permesso di capire di che specie si trattava è quello della coda arricciata». Accanto allo straordinario ritrovamento sono state scoperte altre grandi superfici stracolme di graffiti. «La cosa interessante è che questa zona è molto lontana da quella del Parco dei Graffiti dell’Annunciata (vedi https://archeologiagalliacisalpina.wordpress.com/2020/05/24/1040/) – continua l’archeologo -. Sono convinto che in tutto il territorio che va dall’Annunciata fino a Cogno, dunque dall’inizio dello strato della Formazione di Wengen, vi siano decine e decine di rocce ancora da scoprire». Inoltratosi nella forra del Trobiolo, Priuli ha proseguito lungo un sentiero dove, in corrispondenza del punto in cui il torrente ha scavato l’alveo, poco più in alto vi è un’altra superficie ricoperta di graffiti.
«L’ipotesi è che questa fosse una zona sacra, un santuario o un centro spirituale, perché altrimenti non si spiegherebbe questa enorme profusione di graffiti – aggiunge Priuli -. Su alcune superfici ci sono tante sovrapposizioni, in fasi diverse anche tra loro distanti degli anni». I graffiti di Piancogno sono un complesso enorme e unico nel genere in Europa. Sono presenti segni della fase di passaggio dalla protostoria alla romanità, iscrizioni in caratteri etruschi, alfabetari latini, una profusione di dati legati ad un passaggio cruciale per la Valcamonica, dalla preistoria alla storia. «Non c’è un altro luogo dove vi è una documentazione del genere – conclude Priuli -. C’è la volontà di continuare le esplorazioni e riprendere il discorso della valorizzazione. Devo dire che dall’Amministrazione comunale ai volontari, dagli Alpini alla Proloco, si sono mostrati tutti molto sensibili. C’è un patrimonio immenso da scoprire».
Francesco Moretti
Da il giornale di Brescia
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Recenti scoperte sul territorio di Piancogno in seguito alla campagna di ricerca di Ausilio Priuli, noto archeologo camuno che nella frazione di Cogno sta riportando alla luce graffiti realizzati prevalentemente tra il VI secolo avanti Cristo e il II secolo dopo Cristo.
Il lavoro si è svolto sulle rocce lungo l’antica scalinata che dal fondovalle sale con oltre mille gradini, fino a raggiungere l’Altopiano del Sole, dal Trobiolo fino all’Annunciata. Una scoperta di grande importanza perché ha svelato nuovi tipi figurativi e alcune varietà stilistiche.
La differenza notata dallo studioso rispetto alle altre incisioni presenti in Valle – caratterizzate dall’esecuzione con la tecnica della picchiettatura della roccia con un sasso – è che si tratta di incisioni sottili, talvolta minuscole, eseguite sulle pareti verticali usando la punta di un coltello o di lancia. Nonostante ciò i simboli sono di evidente tradizione camuna: scene di caccia e figure di animali, tra le quali numerosi cavalli, molteplici scene di combattimento tra personaggi armati, una grande quantità di figure di armi.
Tra le rappresentazioni più significative Priuli segnala quella di un cane con le fauci aperte che segue un probabile cinghiale. Numerose figure antropomorfe occupano invece un’altra ampia superficie vicina, con simboli come il nodo di Salomone. La campagna di ricerca continua nel paese della media Valle e potrebbe svelare nuove peculiarità. Da radiovicecamuna.it
La via delle Aquane – itinerari nella sacralità dell’acqua. Come il vischio si abbarbica alla quercia, talvolta toponomastica, leggende, vita dei santi, crescono sul ceppo antico dell’arte rupestre.
Come il vischio si abbarbica alla quercia, talvolta toponomastica, leggende, vita dei santi, crescono sul ceppo antico dell’arte rupestre. Dal Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Capo di Ponte, situato nella vecchia contrada di Naquane, variante di un più antico Aquane, si dirama un percorso immaginario che inseguendo toponimi, racconti di fate delle acque, delle rocce e dei boschi, storie esemplari e prodigiose di mistiche donne delinea l’unità culturale di un territorio reale che si stende dalla Vallecamonica ai confini con la Slovenia.
Lo sviluppo dell’indizio prezioso contenuto in Naquane/Aquane – il nome identifica figure femminili, espressione della sacralità delle acque, già ben note nelle fonti dell’antichità classica – conduce alla ricerca di un adeguato corpus di testimonianze che seppur frammentarie possono illuminare i nessi che sono intercorsi sul piano dei contesti narrativi e drammaturgici tra culto delle acque e attività incisoria.
Mappa catastale di Naquane
La presenza stessa – a breve distanza dal Parco Nazionale – di una chiesa dedicata a due sante, protettrici dalle alluvioni e delle partorienti, santa Faustina e santa Liberata, suffraga l’ipotesi della non casualità del toponimo, suggerita tra l’altro dall’ubicazione delle rocce istoriate in siti ricchi di sorgenti, ruscelli, corsi d’acqua, come il fiume Oglio e il torrente Tredenus.
L’indagine si rivolge pertanto allo studio delle sovrapposizioni e delle incorporazioni delle tradizioni orali, delle tipologie dei protagonisti e delle variazioni tematiche rilevabili nel quadro della ricorrenza di gesti e attributi. Le direttrici della ricerca si muovono lungo fondovalli, raggiungono altipiani, percorrono valichi, riscoprono antiche vie di transumanza e di comunicazione.
Dalla chiesa delle Sante ha inizio la via delle Aquane; le Anguane, le Aganis, le Aguanes, le Aganes, le Vivane, le Gaunes, le Ghiane, le Anghiane…, le abitatrici di magiche dimore che hanno dato il nome a suggestive località, le protagoniste talvolta effimere ed evanescenti dei molti racconti che dall’altopiano del Volano sopra Cimbergo e Paspardo, centri importanti di arte rupestre, richiamano di valle in valle la memoria di tabù, sacrifici, vendette, espiazioni, azioni di grazia, atti rituali di purificazione, gesti propiziatori, riti funerari e di iniziazione, elementi tutti che in qualche modo per straordinarie analogie di immagini o sotterranee implicazioni narrative si raccordano con certe figure di telaio, di labirinto, di impronte di piedi e di mani, di cervi anche cavalcati istoriate sulla superficie delle rocce camune tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro.
Così la via delle Aquane si inoltra sui sentieri che alla confluenza della valle del Tredenus e della val Paghera sotto il Pizzo Badile Camuno si portano verso la val Daone e di lì raggiungono la strada che dal lago d’Idro sale a Madonna di Campiglio.
Al di là del gruppo del Brenta la valle dell’Adige raccoglie acque provenienti da laghi e torrenti ricchi di storie simboliche. Risalendo la valle dell’Adige la via delle Aquane giunge sulle sponde del lago di Fontana Bianca in val d’Ultimo, mentre imboccando la Valsugana tocca i torrenti Chiavona e Larganza per proseguire alla volta della valle del Cismon e attraversare la catena del Lagorai in direzione del Latemar, la terra dei misteriosi Fanes. Ganes e Vivane appaiono sulla strada dominata dal Sass Pordoi accompagnate da figure di cervi e cerve e tra le grotte della Croda Rossa. Le acque del torrente Boite che scendono nella valle d’Ampezzo indicano la direzione che le Aquane hanno seguito per insediarsi nel lago – che la leggenda dice sprofondato – dell’Antelao. L’itinerario nella geografia di tradizioni orali fortemente ispirate ai temi della sacralità delle acque si addentra nel tratto finale della valle del Piave, percorre l’affascinante cornice del Carso, si immerge nel profondo silenzio delle grotte del Basovizza e del diavolo Zoppo per affacciarsi al confine con quelle terre slave ove le figure dell’acqua prendono i nomi di Vilas e Samovilas.Giacomo Camuri – Giannetta Musitelli
Artogne (Brescia), 18 ottobre 2020 – Eccezionale scoperta ad Artogne, che potrebbe diventare uno dei centri archeologicamente più interessanti della bassa Valle Camonica. Nella zona di Monte Campione, difatti è stata scoperta un’incredibile pietra posta sulla cima Campione a 1.830 metri di altezza che porta incisa con figura antropomorfa orante con braccia alzate, del tutto simile a quelle che caratterizzano la zona di Capo di Ponte. La scoperta spetta al professor Ausilio Priuli: uno tra i più noti studiosi delle incisioni rupestri camune al mondo.
«La segnalazione del masso mi è arrivata da Massimo Piotti: un giovane di Pezzaze, che ha notato questa pietra e mi ha condotto nel luogo ove si trova, incredibilmente isolata – spiega Priuli – A metterla nel periodo più recente possibile, ritengo che sia almeno dell’età del bronzo, ovvero del secondo millennio avanti Cristo. La posizione è incredibile per essere una figura isolata. Non solo. Vi è un dettaglio per me importante di questa figura: vede che è di sesso maschile, ma nello stesso tempo si individuano due punti ai lati del busto che potrebbero rappresentare il seno. Ne possiamo dedurre che si tratti contemporaneamente di un maschio e di una femmina. Potrebbe trattarsi della rappresentazione di un essere superiore.
Incisione rupestre Valcamonica
Quella fatta recentemente è solo una delle scoperte di Priuli nel territorio di Artogne, che parrebbe collegato alla zona archeologica di Pisogne, che si trova tra Gratacasolo, la località Campidei e la Val Palot. «A Monte Campione 1.800, in località Massimale, ho scoperto le tracce di un antico insediamento e in particolare un bàrek, ovvero un recinto per animali in pietra che racchiudeva una superficie di oltre 3mila metri quadrati. Analizzando fotografie satellitari e fatte con un drone ho notato che adiacente al bàrek e parzialmente coperto da esso c’è un immenso villaggio costituito di 20 case allineate una accanto all’altra per una lunghezza di 150 metri. Addirittura si individua il canale per approvvigionarlo d’acqua. Accanto a questo l’altro ieri ho trovato altre due grandi case di circa 15metri di lunghezza, forse due antiche stalle. Il tutto si data al primo millennio a.C.”.
Non solo. Priuli ha scoperto in zona rocce con coppelle e segnala la presenza di almeno una quindicina di rocce istoriate e di altri insediamenti preistorici, che sta studiando. Intanto il Comune di Artogne sta lavorando per ottenere finanziamenti utili alla ricerca ma non solo. “Ci rivolgeremo agli enti sovracomunali per avere una prima mappatura di quanto esiste – sottolinea il sindaco Barbara Bonicelli – in futuro si potranno creare percorsi turistici dislocati sui diversi livelli del paese: a 1.200 e a 1.800 dove ci sono i ritrovamenti più importanti”.
I coltelli del tipo Introbio o del tipo Lovere sono coltelli in ferro del I sec a. C – II Sec d. C dotati di fodero in materiale composito (ferro e legno), noti in letteratura sia per ritrovamenti archeologici sia per raffigurazioni su graffiti ed incisioni rupestri come quelle della valle Camonica. Sono armi caratteristiche della tarda età del Ferro nell’Italia Settentrionale, con particolare riferimento all’area alpina e peri-alpina.
Esistono inoltre altri esemplari, citati da vari studiosi come pertinenti o assimilabili a questi due tipi, (coltelli di Peschiera del Garda, Sanzeno e Ortisei, della necropoli di Santa Maria di Zevio-VR, Casalromano MN, Peschiera del Garda. I reperti si trovano in luoghi di conservazione distanti tra loro, a Martigny e Zurigo in Svizzera, a Milano (MI), in Valle Camonica e in Val Sabbia (BS), a Trento (TN), a Ortisei (BZ) in Italia e a Innsbruck in Austria. Dalle analisi comparate dei reperti pertinenti ai due tipi hanno inoltre dimostrato l’effettiva derivazione del tipo Lovere dall’Introbio, al di là di semplici intuizioni o ipotesi proposte in passato. Interessante é comparare i reperti coll’analisi delle incisioni rupestri della Valle Camonica, dove sono rappresentati gli stessi tipi di coltelli, prevalentemente il tipo Introbio, sporadicamente il Lovere, ma anche altri più antichi. La mancanza dei rivestimenti delle impugnature dei reperti archeologici, originariamente in materiale organico, costringe a concentrarci sulle incisioni proprio per poter definire questi aspetti.
Il corpus delle incisioni di queste armi è costituito da 82 figure. Le incisioni sono diffuse nella media Valcamonica in quattordici siti, e su un totale di 22 superfici rocciose, affioranti dal terreno o in parete, e 2 frammenti di piccole dimensioni conservati presso il Municipio di Piancogno. . Dall’analisi delle incisioni è stato possibile evidenziare l’aspetto zoomorfo delle impugnature e dei puntali dei foderi,
COME SONO RINATI I COLTELLI AL MUSEO NARDO DI CETO