Nel 50 avanti Cristo tutta la Gallia è occupata dai Romani… Tutta? No! Un villaggio , abitato da irriducibili Galli resiste ancora e sempre all’invasore. E la vita non è facile per le guarnigioni legionarie romane negli accampamenti ..”. Questo è l ‘incipit che precede tutte le avventure a fumetti di Asterix il Gallico, storie che neanche a dirlo hanno acceso la mia fantasia. René Goscinny e Albert Uderzo, crearono le strisce a fumetti dove un piccolo e orgoglioso guerriero gallo dall’elmo alato, con casacca nera e pantaloni rossi, un paio di baffi resiste agli invasori. Ho parlato del mio fumetto preferito per inserire gli studi su un piccolo villaggio LEPONTICO che è riuscito a mantenere per lungo tempo almeno fino ai Gordiani nel II sec d.C le sue tradizioni seppur all’interno di un mare ormai Romano. Si tratta del villaggio di altura di Marano.
Qui di seguito troverete uno stralcio dell’ articolo originale che potete leggere nella sua forma originale dal titolo ” CONTINUARE A SENTIRSI LEPONTI NEL VASTO IMPERO ROMANO – FULVIA BUTTI”
<< L’incontro tra il nascente impero romano ed i Leponti fu all’inizio superficiale e non presenta differenze così significative del costume funerario se non quelle che rispecchiano i mutamenti storico-sociali in corso alla fine del II secolo aC. Possiamo desumere che i rapporti fra Leponti e “stranieri” Romani inon siano stati particolarmente profondi: risultano gestiti dalle elites, che si limitano ad usare i prodotti importati ed esibiscono nei loro corredi tombali raffinato vasellame di provenienza italica come segno di prestigio. Gli uomini, che si “presentano nelle tombe ancora come guerrieri, dotati di armi (spada e lancia), non appaiono intaccati nella loro identità.
Tale situazione ha un prima netta svolta attorno al 40-20 a.C. quando le testimonianze di cultura materiale sono chiaramente “romane”: probabilmente in questa fase la popolazione vive “alla romana, sia perché gli oggetti d’uso sono quelli comunemente diffusi, sia perché doveva avere adottato usanze “importate”, come quelle relative alla toilette nelle tombe compaiono infatti balsamari che testimoniano l’impiego di profumi ed oli, e vengono deposti specchi.
Ma il vero mutamento “interiore” è ancora successivo, solamente infatti in età augustea gli uomini non vengono più sepolti armati, rinunciando così all’antico modello del guerriero, e non adottano più il tradizionale mantello. fissuto con la vistosa fibula “Ornavasso”, tipica del loro territorio (MARTIN-KILCHER 1998, pp. 234-238). Penso che solamente in questo momento si possa dire sia effettivamente completato il processo di romanizzazione. quando cioè i notabili si identificano nei nuovi modelli romani
Questa fase cruciale della romanizzazione dovette essere comunque articolata e variamente sfumata, poiché ad esempio ad Ornavasso gli uomini continuano per più tempo rispetto a Locarno a vestirsi “all’antica”. Ancora più tradizionaliste appaiono le donne che, sulle sponde del Verbano settentrionale, sono molto più restie dei mariti ad aprirsi ai nuovi influssi e conservano fino oltre la meta del I secolo. d.C. I valori tradizionali della loro terra (MARTIN-KILCHER 1998, p. 138)
Il processo di romanizzazione si potrebbe perciò dire concluso con relativa velocità, e l’epigrafe di La Turbie, in cui i Leponti compaiono fra le popolazioni alpine conquistate, costituirebbe anche il loro epitaffio funebre: proprio quando vengono alla ribalta” della storia citati nell’imponente monumento che celebra l’impresa militare del 15 a.C., essi si annullano rapidamente nel grande impero romano. Infatti i materiali tombali non si distinguono sostanzialmente da quelli cisalpini, anche se si notano differenziazioni fra la parte orientale e quella occidentale (Xe XI Regio), e anche se all’interno di quest’ultima sono state evidenziate caratteristiche specifiche del “comprensorio del Verbano”
La piccola necropoli di Madrano, presso uno degli accessi al passo del San Gottardo e non distante dall’attuale traforo, è per vari aspetti interessante (BUTTI RONCHETTI 2000). Il primo aspetto è proprio questo, la sua posizione in ambito alpino, cioè in un territorio completamente diverso, ma complementare a quello delle numerose tombe del Locarnese che, con la loro alta concentrazione e con la bellezza e ricchezza degli oggetti deposti (anelli, vetri, bronzi, ecc.), avevano dominato “la scena dell’archeologia ticinese e rappresentato “ufficialmente” la romanità del Canton Ticino. Le tombe di Madrano, anche se solo quindici, documentano una realtà in parte differente da quella lacuale. Le diversità erano ovviamente già intuibili a priori, ma proprio il confronto fra le due situazioni permette di conoscere meglio il mondo antico.
Un secondo aspetto è quello del rito funerario adottato, l’inumazione invece della cremazione, che viceversa diventa dominante o esclusiva in pianura. Oltre ad un valore intrinseco già di per sé significativo, questo rito offre il vantaggio di conservare la disposizione originale degli oggetti sul cadavere ed all’interno della tomba (fig. 1). rendendo così fruibile un interessante serie di dati, primo fra tutti la ricostruzione di come era vestito il defunto (MARTIN-KILCHER 1993).
La “novità” emersa dalla ricerca della professoressa Martin- Kilcher è proprio quella di superare il dato archeologico per fornire aspetti di vita antropologici; la studiosa ha appurato in primo luogo che i morti erano vestiti come i vivi ed è riuscita, tramite il confronto con alcuni rilievi pervenutici, a individuare l’abbigliamento in voga, nel quale sorprendentemente rimangono in uso abitudini ed oggetti di antica tradizione .
Un altro aspetto è quello dei materiali rinvenuti: anch’essi si discostano in parte da quelli della pianura e forniscono ulteriori elementi conoscitivi. Mentre le suppellettili ceramiche e vitree sono con ogni probabilità di produzione regionale, è attestato un consistente gruppo di materiali di importazione, vasi e fibule transalpini. Inoltre compare tra i reperti un particolare tipo di fibula quella di “Mesocco” (CRIVELLI 1958-1959, tipo C), su cui è necessario soffermarsi. E un ornamento massiccio di ragguardevoli dimensioni, che raggiunge anche i 16 centimetri di lunghezza , portato in coppia sulle spalle dalle donne per fissare la “sopratunica” (corrispondente al peplo), un rettangolo di stoffa che avvolge il corpo (fig. 5). Certamente di produzione locale. ne possiamo all’incirca delimitare la diffusione ai Grigioni, Canton Ticino, Valli Ossolane ed Alto Vallese. In quest’ultimo ne era presente un atelier produttore, poichè a Brig/Waldmatte, ne sono stati rinvenuti due pezzi non ultimati (PACCOLAT 1998a, p. 88) ed all’interno dell’ambito sopra definito questa spilla raggiunge picchi di alta concentrazione (ETTLINGER 1973, p. 46).
Siamo in grado anche di tratteggiarne la genesi, già la Ettlinger infatti (ETTLINGER 1973, p. 51) aveva individuato una forma intermedia fra la Misorerfibel e la Knotenfibel (rispettivamente forme Ettlinger 7 ed Ettlinger 8) di cui più esemplari provengono da Ornavasso e dal Locarnese (fig. 6). Essi sono ornamenti più raffinati rispetto ai successivi, poiché conservano ancora la staffa traforata ed i noduli sull’estremità dell’arco, sono in argento e normalmente di piccole dimensioni, anche se qualche esemplare supera i 10 centimetri (SIMONETT 1941, Liverpool u tomba 33, n. 13: ETTLINGER 1973, tav. 24, n. 1), ma presentano già l’arco piatto come sarà caratteristico nella “Mesocco”, Altri pezzi provengono da Coira (SIEGFRIED-WEISS 1991, pp. 141-142, tav. 51, n. 3) (fig. 7) e da Gamsen (Vallese). All’età angustea si data la maggior parte dei rinvenimenti sopra citati ed in quest’epoca dobbiamo collocare perciò la nascita della Misoxerfibel. 1 secoli di maggiore concentrazione sono il I-II, ma la sua durata è sorprendente, poiché è ancora presente, successivamente, nella necropoli di Arcegno (tomba 61) (fig. 8) associata a monete di Gordiano III, e nel Vallese (PACCOLAT 1997, p. 33, fig. 15, tomba 89/3)………>> .
Possiamo dire che ancora ai tempi dei Gordiani resistevano tradizioni specifiche identificative della cultura dell’ ‘antica area insubres -lepontica
Storia del sito: La maggior parte delle costruzioni di epoca celtica era eseguita principalmente di legno o in legno con fondazioni di pietra. Rari sono i ritrovamenti di edifici realizzati completamente in pietra (in Irlanda, Bretagna, Occitania e Galizia) e quello di Roldo è l’unico ad essersi discretamente conservato in tutta l’area Gallo-romana. L’edificio è stato scoperto e studiato da Tullio Bertamini nel 1975 .
Dall’accurato esame dei materiali e delle tecniche costruttive, l’edificio è stato datato al primo secolo dell’era cristiana in un periodo nel quale gli influssi culturali romani erano ancora molto scarsi. Che si trattasse di un edificio di culto è dimostrato dalle tecniche costruttive, dalla posizione, dall’orientamento sull’asse nord-sud e soprattutto dall’uso della pietra e del marmo locale e la pianta interna a doppia cella che attestano un uso sacrale “importante”. Dopo la cristianizzazione dei territori dell’Ossola (IV sec.) fu convertito ad uso profano e, attorno al XIII secolo, fu sopraelevato per trasformarlo in torre di vedetta. Esso si trova oggi inglobato in mezzo ad altre costruzioni.
Descrizione del sito: L’edificio sorge in cima a uno sperone da cui si vede l’intera alta valle e da essa è perfettamente visibile. Esso è poi stato costruito su una grande roccia che è stata scavata per ospitarne le fondamenta e tutto lascia pensare che fosse proprio tale roccia la prima origine del culto su quel sito. E’ costruito interamente in pietra lavorata con una certa maestria e legata a calce.
La soprelevazione medievale è chiaramente visibile all’esterno anche per la diversità del paramento murario. Il tempietto di Roldo ha forma rettangolare dalle misure esterne di m 5,50 di lunghezza e di m 3,60 di larghezza. All’interno è diviso in due piccoli vani: una cella di 2,45 per 2,90 m e un atrio di m 2,45 per 1,10. Si accede all’atrio da una porta con arco a tutto sesto e si passa nella cella grazie ad un’altra porta, che è stata però demolita per creare un ambiente più ampio, a cui fu opposta una porta: queste sono le modifiche più evidenti.
La cella è coperta da una volta a botte impostata a m 2,85 di altezza ed alta, al centro, m 4,10. La copertura era di lastre di pietra sagomate a tegoloni ed è stata nascosta dalla sopraelevazione. Il tetto in beole di tale torre è crollato all’inizio del decennio 1970-80 e fu sostituito con una copertura in lamiera. Vicino alla finestra doveva trovarsi l’altare (o una base con la statua), dati i segni che si rilevano sul pavimento. A circa 4 m di altezza lungo l’intero perimetro del muro sta una pietra piatta e scura, la “laugera”, non di cava locale ma proveniente dalla val Bognanco che aveva una precisa funzione: sui lati Sud e Nord funge da corda di un arco di scarico, sul quale poggiano gli elementi della volta a botte della cella, perché la spinta sia solo in parte scaricata su questi due muri. L’edificio ha una sola piccola finestra, di cm 45 per 58, posta sulla parete di fondo ad una altezza dal pavimento tale che la luce solare penetri direttamente nell’edificio solo nel periodo compreso fra l’equinozio di autunno e quello di primavera (23 settembre – 21 marzo) e che l’illuminazione massima si abbia a mezzogiorno del solstizio d’inverno (22 dicembre), quando il raggio del sole attraversa l’intero tempietto. Per questo non è del tutto azzardato supporre che il tempio fosse dedicato al dio solare Belenos.
Informazioni: In frazione Roldo. Telefono Pro Loco 0324 232883
I vasi di bronzo costituiscono una particolare tipo di vasi ad uso domestico. Realizzati per durare a lungo , rappresentavano un patrimonio familiare che passava da madre in figlia per generazioni . Questa particolare preziosità antica, rende più difficile una fine identificazione cronologica . Tuttavia è possibile in ogni caso identificare in Gallia Cisalpina almeno tre fasi principali di utilizzo del vaso di bronzo. Questi tre periodi vanno dal 388 aC al periodo augusteo e ricalcano la divisione cronologica del periodo La Tène. Lo studio cerca di definire le forme e le tipologie dei vasi di bronzo, il loro legame con il rango sociale in Cisalpina utilizzando come area privilegiata l’area veronese ( Povegliano soprattutto). Tale zona ha permesso di osservare infatti almeno 150 esemplari, databili dal IV/III secolo a.C. all’età augustea in gran parte recuperati da contesti funerari.
PRIMO PERIODO: (388-130a.C)
Nonostante l ‘invadione gallica del 388 a.C. prosegue la produzione locale, rappresentata da recipienti destinati al consumo del vino o di altri tipi di vevande fermentate. Nelle aree occupate dai Leponti e dagli Insubri sono attestate le situle (tipi Pianezzo, Cerinasca e Castaneda), le capeduncole,le brocche a becco (Tessiner Kannen). Sono recipienti prodotti nel Sopraceneri – per le brocche a becco anche nel Comasco – e attestati nell’area occidentale della Cisalpina, tra il Canton Ticino e la Bergamasca, sui quali non mi soffermo in questa sede perché esaurientemente analizzati da De Marinis in occasione della mostra sui Leponti , e ancora più recentemente, da Nagy e Tori per la necropoli di Giubiasco. Produzioni locali sono ben attestate anche in area Cenomane – mi riferisco alle fiasche da pellegrino, con gli esemplari della tomba di Castiglione delle Stiviere e
Brocca a becco di area Lepontica
in area veneta e retica, dove permane la produzione di situle a sbalzo e di simpula. Sono attribuite a officine locali, che continuano una tradizione lunga e feconda, Le situle di Este, da quelle a corpo troncoconico e sinuoso della tomba Ricovero 23, la famosa tomba di Nerka Trostiaia, a quelle istoriate delle tombe Boldù-Dolfin 52–535. Per le situle è stata identificata anche un’area di produzione tra le valli dell’Adige e del Piave, con uno o più ateliers che operano nel IV secolo unendo elementi di tradizione halstattiana a motivi di influsso celtico ed etrusco. Anche i simpula prodotti a partire dal IV secolo riprendono e rielaborano il tipo etrusco a vasca emisferica e manico verticale, ma con il manico a nastro applicato con ribattini alla vasca.Nel santuario di Lagole di Calalzo(Belluno) questi attingitoi sono utilizzati anche nei rituali delle acque.
Vasellame d’importazione
Per quanto riguarda invece le importazioni di vasellame di bronzo dall’Etruria, che avevano caratterizzato tra VI e V secolo a.C. lo sviluppo dell’Etruria padana e della civiltà di Golasecca, si ha effettivamente una contrazione in seguito all’invasione gallica del 388 a.C., che non sembra però toccare l’area di Spina, dove recipienti e candelabri di bronzo caratterizzano sia le tombe dell’ultimo quarto del V secolo, sia quelle del primo quarto del secolo successivo.
SECONDO PERIODO ETÀ LT D
Con l’età tardorepubblicana, corrispondente in ambito padano al LT D (130–15 a.C.), la presenza di vasellame di bronzo d’importazione si fa numericamente più rilevante e più varia quanto a tipi rappresentati. Per la Gallia Cisalpina si possono considerare ancora validi i saggi sulle varie forme e le liste di distribuzione elaborati in occasione dellatavola rotonda di Lattes, La vaisselle tardo-républicaine en bronze (Feugère, Rolley (eds.) 1991), con aggiornamenti relativi all’asse Ticino-Verbano e, sul versante opposto, al Caput Adriae al territorio dell’attuale Lombardia, con specifiche dedicate al Comasco e al territorio di Bergamo; molto si attende, inoltre, dalle necropoli del Veronese che sono state scavate recentemente e sono attualmente in corso di studio. Più numerosi, a tutt’oggi, gli aggiornamenti e le pubblicazioni di recipienti di età tardorepubblicana in ambito europeo In linea generale, si può osservare che alle padelle tipo Montefortino e Povegliano si sostituiscono le padelle tipo Aylesford, con vasca fortemente convessa e il caratteristico motivo a spina di pesce sul labbro (cfr. Tav. 5: XXVI/7), che formano una coppia funzionale con le brocche carenate tipo Gallarate e, talora, anche con le brocche a corpo piriforme tipo Ornavasso-Ruvo,Ornavasso-Montefiascone,Kelheim e Kjaerumgaard.
Le brocche tipo Gallarate, bitroncoconiche a carena bassa con ansa terminante a foglia cuoriforme e puntale, sono a tutt’oggi, insieme alle padelle Aylesford, le forme più rappresentate nei contesti funerari di questo periodo; che in Gallia Cisalpina le padelle rivestissero un ruolo fortemente simbolico all’interno dei servizi da banchetto, è indiziato dalla frantumazione rituale del recipiente durante i riti di sepoltura e dalla deposizione sul rogo funebre. Del successo delle brocche bitroncoconiche possono essere indicative le imitazioni “povere” in terracotta attestate già dal terzo quarto del II secolo a.C. in Grecia, e la presenza, nel santuario di Delo,frequentato da mercanti e visitatori italici, di una matrice in calcare riferibile ad una forma a carena bassa di piccole dimensioni.
Padella tipo Aylesford. Museo di Mergozzo
TERZO PERIODO-ETA’ AUGUSTEA
Con l’età augustea, il nuovo dinamismo economico della Cisalpina, legato all’espandersi delle strutture produttive transpadane e all’apertura della zona centropadana a più veloci circuiti commerciali, vede la rapida diffusione di un repertorio di forme in parte legato alla serie tardorepubblicana, della quale vengono riproposti elementi strutturali e ornamentali, in parte del tutto innovativi.
Nella tomba 16 della necropoli del Colabiolo di Verdello (Bergamo), ad esempio, datata in base a una moneta e un boccale del tipo Aco intorno al 20 a.C.88, è già presente una brocchetta “moderna”, di produzione verosimilmente campana89. Si tratta infatti di un recipiente riconducibile alle serie Tassinari C1224, che trova un confronto puntuale con una brocchetta di Levate (Bergamo), da una tomba di età augustea . Alcune forme tardorepubblicane, del resto, risultano ancora in produzione, come le padelle tipo Aylesford, che continuano con una produzione bollata da Cornelius, alla quale sembrerebbe appartenere anche l’esemplare rinvenuto a Domodossola in una tomba di età prototiberiana, e le brocche carenate tipo Gallarate con labbro arricchito da un kyma ionico91. Anche i simpula-colini continuano ad essere prodotti con il tipo Radnόti 40, con vasca larga a fondo piatto (Fig. 17), datato tra il 20/15 a.C. e il 10/15 d.C.92 Appare legata alla serie tardorepubblicana anche la brocca tipo Tassinari C1210, attestata in Italia centrale (a Pompei, nel Viterbese e in Val di Cornia) e in Italia settentrionale a Genova, Fino Mornasco (Como), Castrezzato (Brescia).
Palasio alcune tombe con corredi, mentre 30 sepolture riemergono tra il viale 1814 e via Ferriere: trovati qui anche 4 tumuli, una novità in Ticino.
TRANSPADANA , RAETIA AI TEMPI DI AUGUSTO
Doppia importante scoperta archeologica a Giubiasco: nelle scorse settimane in una grande parcella di terreno situata tra il viale 1814 e la via Ferriere, durante i lavori per una nuova edificazione, sono emerse una trentina di tombe da riferire all’Età del Ferro, risalenti perciò al Sesto-Quinto secolo avanti Cristo. Il terreno – spiega l’Ufficio cantonale dei beni culturali in un comunicato stampa – era occupato da una serie di edifici a carattere industriale, demoliti per lasciare spazio alla costruzione di un palazzo residenziale, nel frattempo quasi giunto a tetto. Ma non è tutto: alcune centinaia di metri verso montagna, in via Rompeda nella zona del Palasio, area conosciuta da decenni dal profilo archeologico, sempre nel corso di un cantiere edile di dimensioni più ridotte sono emerse alcune tombe, pure risalenti all’Età del Ferro. In questo caso una sepoltura conservava un vaso pre-trottola, una ciotola e un bicchiere a calice in ceramica, così come due fibule in ferro, indica a ‘laRegione’ Rossana Cardani Vergani, caposervizio archeologia dell’Ufficio beni culturali, responsabile delle operazioni di scavo, ricerca, catalogazione e conservazione dei reperti. Cardani Vergani ricorda che «grazie alla raccolta dati della Mappa archeologica del Cantone Ticino, lavoro iniziato a fine anni 90, oggi l’Ufficio dei beni culturali è in grado d’inserire nei Piani regolatori (Pr) i cosiddetti Perimetri d’interesse archeologico (Pia)». E come detto la zona del Palasio, con le sue 700 sepolture emerse dagli anni 60 fino a oggi, rientra notoriamente in una di queste aree d’interesse.
Materiali celtici dalla tomba 423 di Giubiasco
‘Potrebbero cambiare la storia di questa grande area sepolcrale’
Lo scavo tra il viale 1814 e via Ferriere è ancora in corso (si concluderà a fine dicembre) e sta riportando alla luce un numero considerevole di sepolture a inumazione e cremazioni singole. Se i corredi che accompagnano le oltre trenta tombe finora scavate sono ricchi e interessanti – indice quindi di una popolazione che le vie di transito hanno reso di ceto alto –, stando al Servizio archeologico la grande sorpresa sta nei quattro grandi tumuli presenti, “una prima assoluta per il Ticino”. Il tumulo rimanda infatti alle famose tombe etrusche, dove una struttura costruita ‘a collina’ racchiudeva sepolture di grande importanza. I tumuli giubiaschesi verranno aperti in sequenza nei prossimi giorni. La tomba principale lo sarà nel corso della presentazione alla stampa in agenda il 28 novembre: “Le aspettative al proposito sono grandi e, se confermate, cambieranno la storia di questa grande area sepolcrale”.
La brocca in bronzo a becco d’anatra trovata nove anni fa
Tornando in via Rompeda, in zona Palasio già nel 2013 era stata scoperta una necropoli, «dalla quale sono state riportate alla luce una trentina di sepolture a inumazione, caratterizzate da ricchi corredi perlopiù maschili da riferire all’Età del Ferro». Un’area nota fin dal 1906, «in quanto (seppur in modo sporadico) nelle vicinanze erano state rinvenute alcune sepolture», precisa Cardani Vergani. Le tombe di via Rompeda sono dunque legate alla Necropoli del Palasio, visto che sono state trovate a pochi metri di distanza da essa. Ricordiamo che uno degli oggetti di maggior pregio riportati alla luce nel 2013, è stata una brocca in bronzo a becco d’anatra: una rielaborazione dei Leponti – popolo stanziato nelle Alpi centrali che alcuni secoli a.C. era presente pure nella zona di Bellinzona, ad Arbedo e, appunto, Giubiasco – di un modello tipico etrusco per servire il vino nei simposi. La brocca è stata esposta una prima volta nella casa comunale di Giubiasco assieme ad altri oggetti ritrovati nella necropoli per alcuni mesi nel 2016; oggi è l’‘oggetto simbolo’ presso il Museo di Montebello.
Tomba 31 Castione Bergamo d’Arbedo
Zone archeologicamente sensibili
Se da un lato il ritrovamento di reperti antichi genera sempre stupore e curiosità, dall’altro può anche provocare alcuni malumori per le ditte che devono parzialmente rallentare il cantiere. Tuttavia, l’istituzione di zone archeologicamente sensibili genera trasparenza: in questo modo le società di costruzione sono a conoscenza che il cantiere potrebbe, molto probabilmente, subire alcuni ritardi, di cui quindi si tiene conto al momento della pianificazione dei lavori. «L’inserimento a Pr dei Pia fa sì che ogni intervento previsto nei terreni che vi fanno parte venga annunciato al Servizio archeologico cantonale, che ha il dovere di preavvisare la domanda di costruzione o la notifica», rileva Cardani Vergani. «Il preavviso (di regola favorevole con condizioni) indica un solo obbligo agli istanti, che in base alla Legge sui beni culturali, sono tenuti a preavvisare per tempo l’inizio dei lavori, in modo che dai primi movimenti di terreno il Servizio sia presente e controlli la possibile presenza di sostanza archeologica».
Dal ritrovamento allo studio, fino all’esposizione, passando dal restauro
Ma concretamente cosa succede quando viene accertata la presenza di reperti archeologici in un cantiere? «Lo scavo meccanico viene interrotto e gli archeologi iniziano il loro intervento manualmente; solo in questo modo infatti la sostanza antropica ancora presente nel terreno viene identificata, rilevata e documentata, così che se ne possa ricostruire l’evoluzione», sottolinea la caposervizio. «Lo scavo scientifico condotto da archeologici permette così di riportare alla luce strutture legate a insediamenti, fortificazioni, luoghi di culto, necropoli, per citare i ritrovamenti più comuni. Accanto ai reperti immobili, l’indagine riconsegna molto spesso grandi quantità di reperti mobili integri o in frammenti: corredi da sepolture, oggetti di uso quotidiano da insediamento, armi da luogo difensivo». Ovviamente il percorso di un reperto archeologico non si ferma dopo il ritrovamento a seguito di uno scavo: in un secondo tempo si procede infatti con «la conservazione, il restauro, lo studio, la valorizzazione e infine l’esposizione».
Tomba 108 Cerinasca d ‘Arbedo
Il Cantone possiede oltre quarantamila reperti mobili
Cardani Vergani precisa poi che «i reperti mobili diventano per legge di proprietà dello Stato, mentre quelli immobili (se non distrutti) rimangono ancorati al terreno e quindi sotto la responsabilità del suo proprietario». In generale in Ticino sono stati mappati «circa tremila siti archeologici» e il Cantone possiede «più di quarantamila reperti mobili». Di questi ne sono stati esposti «unicamente un migliaio. Una minima parte, se si considera la grande ricchezza della collezione archeologica: dai vetri romani (una delle maggiori collezioni a livello europeo), ai numerosi reperti in ceramica, ferro, bronzo, argento e oro, che dal Neolitico ci portano all’alto Medioevo, ai frammenti di dipinti murali del pieno Medioevo».
Collezione destinata a crescere ancora
Una collezione, quella di proprietà dello Stato del Cantone Ticino, che, visti i frequenti nuovi ritrovamenti archeologici, è «destinata a crescere negli anni. Una collezione che tutti auspichiamo sempre di più diventi appannaggio non solo degli specialisti», ma di tutta la popolazione. Articolo di Fabio Barenco tratto da “la regione.ch”
Archeologia Montebello – Il nuovo percorso espositivo all’interno del Castello di Montebello, Bellinzona
Dopo alcuni anni di interventi, svoltisi a tappe e seguiti dalla Sezione della logistica (Dipartimento delle finanze e dell’economia), e con un allestimento museale rinnovato a cura del Servizio archeologia, il Castello di Montebello ha riaperto al pubblico con un nuovo concetto espositivo, più innovativo e dal taglio divulgativo.
La nuova entrata al percorso espositivo “Archeologia Montebello”
Al Palazzetto – attraverso vecchi documenti, disegni, fotografie d’epoca e progetti architettonici – è presentata la storia del castello, dalla sua edificazione avvenuta alla fine del XIII secolo, passando attraverso gli ampi lavori di restauro e di ricostruzione del periodo 1902-1910, per giungere all’ultimo importante intervento architettonico risalente agli anni ’70 del secolo scorso.
La torre del castello ospita invece un’esposizione archeologica dove è presentata una selezione di rinvenimenti del territorio ticinese, con particolare attenzione alla regione del Bellinzonese e delle valli superiori. I reperti, tra cui alcuni pezzi rari e di pregio come ad esempio la brocca a becco d’anatra da Giubiasco-Palasio esposta all’entrata, invitano il visitatore alla scoperta di questo territorio attraverso elementi, legati alle risorse naturali e alla presenza umana, che lo caratterizzano fin dai tempi più remoti.
Brocca a becco d ‘anatra
La visita al mastio si sviluppa in verticale seguendo il filo del tempo in ordine cronologico, dal basso (il periodo più antico, il Mesolitico) verso l’alto (il periodo più recente, la Romanità). La sequenza – suddivisa in quattro piani espositivi, intercalati da tre piani evocativi – richiama le modalità della ricerca sul terreno, che riporta alla luce le testimonianze in base a una lettura stratigrafica: gli strati più profondi racchiudono gli elementi più antichi, quelli più superficiali i più recenti. In ogni piano la “Carta del tempo” ideata dall’Associazione Archeologica Ticinese e i relativi riferimenti cromatici ricordano al visitatore a quale epoca appartengono gli oggetti esposti e in quale contesto essi si inseriscono.
Estratto della “Carta del tempo” elaborata dall’Associazione Archeologica Ticinese
Una volta giunti al cosiddetto Belvedere, alcune vedute mostrano la morfologia attuale del territorio, mettendo l’accento sugli aspetti geografici.
Un altro percorso scende invece ai piani inferiori, dove si possono approfondire alcune tematiche: l’introduzione nelle nostre terre della prima forma di scrittura, avvenuta durante l’età del Ferro, e la sua diffusione, in epoca romana; l’abbigliamento, ossia come vestivano e si adornavano le nostre antenate e i nostri antenati; i riti funerari in uso nell’antichità.
Un approfondimento tematico dedicato all’introduzione della scrittura nelle nostre terre
Una guida in quattro lingue scaricabile su smartphone accompagna il visitatore lungo tutto il percorso espositivo.
L’uso di imprimere marchi sulle lame delle spade è attestato prevalentemente in Svizzera, da cui proviene la stragrande maggioranza dei ritrovamenti. Diversi marchi sono conosciuti anche in Germania meridionale, Ungheria e Slovenia, altrove si hanno testimonianze molto più sporadiche.
Anche se comunemente classificati come marchi di fabbrica, in realtà sembra che il loro significato fosse di carattere talismanico e apotropaico. Prevalentemente si trovano rappresentazioni di maschere umane inserite in una mezzaluna e cinghiali, rappresentati come di consuetudine nell’arte celta, con le setole del dorso irsute. In alcuni casi, tra le zampe del cinghiale sono collocate tre palline, forse a rappresentare, in modo stilizzato, un triskel, in altri casi, come ad esempio sul punzone della spada di Magenta, tra le zampe vi è un simbolo circolare, il quale potrebbe essere un simbolo solare. Il cinghiale era uno degli animali di culto per eccellenza tra i Celti, simboleggiava la forza, la virilità, la guerra e spesso lo si ritrova raffigurato sia su monete, spade e suppellettili vari. Le spade di Magenta, sono quindi un prodotto di artigianato celta, inconfondibile, attribuibile certamente agli Insubri, inoltre dimostrano l’esistenza di strettissimi contatti con l’altopiano elvetico, con i Leponti, da cui potrebbero anche provenire tramite gli scambi commerciali.
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Lama di spada con punzonatura raffigurante un cinghiale (ingrandito nel particolare) e fodero di spada con decorazione incisa raffigurante un triskel, da Magenta (Mi), 250-175 a.C.
Catena sistema di sospensura porta spada, in ferro, da Magenta (Mi), 250-175 a.C. Un esemplare del tutto simile è stato rinvenuto in una sepoltura con armi, datata anch’essa tra il 250-200 a.C. a Malnate (Va)
Raffigurazione di cinghiale, da una moneta coniata dalla tridù degli Osismii, celti stanziati in Gallia, nelle terre dell’attuale Bretagna. Si noti la similitudine con la raffigurazione sulla spada di Magenta.
Da persee.fr
MARCHI DELLE SPADE LA TENE AL MUSEO ARCHEOLOGICO DI MILANO
GLI ANELLI DA CAVIGLIA O CAVIGLIERE SONO UN ORNAMENTO TIPICAMENTE FEMMINILE DIFFUSO NEL TERRITORIO INSUBRE E IN QUELLO CELTICO TRANSALPINO SOPRATTUTTO CENTRO-ORIENTALE.
In primo piano cavigliere insubri-Castello Sforzesco Milano Museo Archeologico III sec a.CCavigliere Insubri -a sinistra-del museo archeologico di Milano – Castello Sforzesco Le cavigliere del museo archeologico esposte alla mostra ” le vie dell’ acqua di Mediolanum”
Tra numerosi materiali di ornamento tipici della cultura insubre e non solo , una categoria di ornamenti personali si distingue per qualità e quantità: si tratta delle cosiddette “CAVIGLIERE AD OVOLI”. I contesti confermano che questi elementi, la cui popolarità raggiunge l’apice nel mondo celtico nel III secolo d.C., erano di esclusivo appannaggio femminile.
A sinistra cavigliere Insubri . Museo A.Levi MilanoCavigliere ad ovuli Insubri dal museo di Arona
sopra: cavigliera lateniana -Museo Civico di Lodi
La diffusione disomogenea nel territori gallici fa presumere l’adozione selettiva di anelli da caviglia nel costume femminile solo da parte di alcune tribù, stanziate a macchia di leopardo” nelle aree della Moravia e delle limitrofe regioni dell’Europa centro- orientale, nella Champagne francese e, in Italia settentrionale, nel comprensorio Insubre, tra Sesia e Oglio.
Cavigliera ad ovuli dal territorio Orobico III sec a.C.-museo archeologico Bergano
Per lo studio del dettagli costruttivi e dei modi di indossare le cavigliere, talvolta abbinate anche ad analoghi bracciali sempre portati in coppia, la necropoli di Dormelletto, scavata e indagata con grande puntualità scientifica, è di grande importanza, poiché, a eccezione di essa, tutti gli anelli ad ovoli noti dal territorio insubre sono di provenienza sporadica o da collezione, e non se ne conoscono le precise circostanze di rinvenimento.
Cavigliere ad ovuli dal territorio elvetico. Da catalogo I Celti Bombiani
I resti di materia organica trovati aderenti ad alcuni esemplari di Dormelletto hanno permesso di ricostruire che gli anelli, muniti di un sistema di apertura a cerniera, venivano fissati anche con l’ausilio di cordicelle di lana e servivano a stringere calzari che si sviluppavano ad avvolgere la caviglia, assolvendo a una duplice funzione pratica e ornamentale.
Al centro donna insubre- museo archeologico di LeccoDonne celtiche dal gruppo storico ” Insubria Gaesata”Cavigliera ad ovuli in bronzo provenienza insubre III sec a.C. area milanese.
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lL COSTUME DEGLI ANELLI DA CAVIGLIA AD OVOLI CAVI IN ETÀ LATENIANA.
Rielaborazione da articolo originale di NICOLA BIANCA FABRY
Il mondo celtico è stato sempre attratto dai gioielli e dai monili.
L ‘uso degli anelli in coppia sul braccio o sulle caviglie caratterizza la parure femminile ha una origine antica nel mondo celtico Mentre altri tipi di gioielli quali il torquis (collare), l’armilla, il bracciale omerale e l’anello digitale rientrano anche nella sfera maschile, l’utilizzo di cavigliere appare invece solo esclusivamente nel mondo femminile.
Le cavigliere seguono una propria vera evoluzione tipologica un po’ come avviene per tutti gli oggetti di moda .
Nella fase piú antica LT B2 si riscontra l’introduzione di un tipo a serie di piccoli ovoli cavi (da 14 a 18 ovoli). La progressiva evoluzione tipologica è dimostrato da forme intermedie ibride, articolate da costolature massicce, con ovoli cavi( es c tomba 5 di Kuřim in Moravia e alcuni dell’Alta Baviera pubblicati da W. Krimer.)
Anelli da caviglia da Klettham -Baviera III sec a.C
Lo studioso R.Gephart , basandosi su reperti centroeuropei (provenienti da Moravia Boemia Baviera meridionale e Svizzera ) riconosce come indicatore cronologico proprio la riduzione del numero degli ovuli cavi.
Le cavigliere con più di 10 ovoli compaiono nella fase LT B2a.
Quelli con meno di 10 caratterizzano la fase LT B2b/ C la
I tipi con meno di 5 e quelli con 3 o 4 ovoll ipertrofici- detti forme tarde – sono presenti nel LT C1.
Tale fenomeno è presente anche sulle armille .Va specificato che sul numero degli ovoli cavi influisce anche la destinazione per cui un’armilla può presentare un numero minore di ovali rispetto a quelli presenti sulle cavigliere dello stesso contesto funerario.
Anelli da caviglia/cavigliere Insubri da Milano Bettola III sec a.C. Milano Civiche raccolte Archeologiche castello Sforzesco .foto da I Celti – Bompiani
La diffusione di questa moda nel mondo celtico ha probabilmente seguito due modalità.
Nel primo caso si assiste ad una moda importata senza l’arrivo di nuovi gruppi etnici. .
Nel secondo caso, si tratta della diffusione del costume attraverso migrazioni ed immigrazioni la mobilità degli individui. Nell’Italia del nord o nel caso emblematico del La Champagne studiato da V. Kruta, non si assiste soltanto all’arrivo di una nuova forma ornamentale ad anelli, ma prima di tutto ad un nuovo costume-l’utilizzo di anelli in coppia sulle caviglie che segnala i movimenti o la migrazione di gruppi allogeni.
Per quanto riguarda l’area italiana, gli anelli da caviglia ad ovoli cavi si possono dividere in
A) tipi d’importazione transalpina , con una particolare concentrazione a Marzabotto( che evidenzia legami con l’area boema-morava attorno alla metà del III secolo a.C).
B) tipo ibrido (s stipe Baratella ad Este) che nella distribuzione e decorazione plastica degli ovoli mostra elementi padani ad elementi transalpini
C) forme locali, distribuite prevalentemente nell’area transpadana occidentale, riferibile ai Galli Insubri. I due tipi (“Bettola” e “Lodi Vecchio”). rispetto agli esemplari transalpini, presentano la particolarità di utilizzare una notevole quantità di metallo e inoltre ovoli allungati e un “doppio ovolo”, normalmente diviso da due solcature verticali.
Questa tipologia “insubre” che non corrisponde alla sequenza evolutiva transalpina , conta 12 ovali nonostante faccia parte di contesti del LT C l
Nella necropoli di Dormelletto sembrerebbe possibile che l’utlizzo degli anelli da caviglia rifletta caratteri regionali. Le diversità di forma potrebbero essere espressione di una ulteriore articolazione sociale o locale .
Purtroppo, eccetto necropoli di Dormelletto e ritrovamenti sporadici, in Padania non sono documentati altri complessi funerari utili per un confronto preciso ad ampio raggio.
Gli anelli da caviglia ad ovoli cavi del tipo insubre hanno comunque similitudini in terre lontane: nell’area del Medio Reno / Mosella, Paesi Bassi, dove, ad esempio, nella tomba isolata di Koningsbosch, datata alla seconda metà del III secolo a.C., la coppia di anelli da caviglia presenta forma allungata e un maggior numero di ovoli cavi.
Cavigliere INSUBRI presso il museo di Lodi Vecchio.
ANELLI DA CAVIGLIA DEI GALLI BOI articolo di Heidi Geschwind
Cavigliere dei Boi diffusione in Cispadana e centroeuropa
Cavigliere a Marzabotto: Marzabotto (prov. Bologna/I) è uno dei siti archeologici più importanti per la ricerca sulla mobilità delle donne celtiche. Dal 19° secolo sono stati trovati e studiati sei ‘Hohlbuckelringe’ (cavigliere con emisferi cavi/anelli nodosi) non decorati. Questo tipo di gioielleria nasce nel medio periodo di La Tène nell’Europa centrale, dove alcune varianti si svilupparono in diverse regioni. Per gli studi sulle cavigliere di Marzabotto si può ipotizzare un’influenza celtica in LT B2 in Emilia -Romagna, che ha le sue origini nell’area della Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca. Per la prima volta a Marzabotto, i gioielli da donna La Tène sono al centro del dibattito sulla provenienza.
Montagna sacra di Wroczen a Pakoszowka nel sud est della Polonia . Qui gli archeologi hanno scoperto depositi votivi del III-II sec.a.C costituiti da vari oggetti tra cui le cavigliere ad ovuli cavi tipici delle parures della cultura di La Tene ( da archeologia Viva n 218 marzo 2023) Riva del Tisza(Ungheria), affluente del Danubio, scavi della necropoli di Sajopetri risalente alla prima migrazione celtica (prima metà III sec. a.C.): tomba a inumazione con cranio dislocato sul lato destro del corpo, accanto a costate di porco offerte al defunto e (sotto) sepoltura femminile con corredo ceramico ai piedi, due anelli da caviglia a ovoli e un braccialetto traforato con decorazione a traforo e a pastiglie (foto da archeologiaViva)
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L’APPARTENENZA ETINCA DEI CELTI CISALPINI ATTRAVERSO I GIOIELLI
Tratto dal depliant della mostra ” LEPONTI TRA MITO E REALTÀ”Locarno anno 2000
Particolare della testa del toro in cui si può osservare al cura nella resa dei dettagli Ticino, Giubiasco(?). Tomba 262 – IV sec. a.C
La riscoperta dell’importanza e dell’esatta localizzazione della popolazione alpina dei Leponti è un’acquisizione della moderna archeologia protostorica.
Scarse e brevi sono infatti le notizie le notizie delle fonti letterarie antiche greche e romane, e non anteriori alla metà circa del II sec. a.C. quando Catone il Censore, a proposito delle tribù dell’area alpina e subalpina, ci informa che «i Leponti e i Salassi sono di stirpe taurisca», notizia ripresa oltre due secoli dopo da Plinio il Vecchio. Quest’ultimo riferisce inoltre una curiosa interpretazione del nome dei Leponti basata su una falsa etimologia greca: questo popolo sarebbe stato così chiamato perché «discendente dai compagni di Ercole abbandonati li per aver avuto le membra congelate durante il passaggio delle Alpi» (in greco, infatti, il verbo ‘abbando- nare’ suona ‘leipein’). Plinio aggiunge poi che la popolazione «leponzia» degli Uberi è stanziata presso le sorgenti del Rodano.
Da Strabone e da Giulio Cesare (I sec. a.C.) si desume infine qualche indizio sulla nozione dell’ampiezza in senso sud-nord del territorio dei Leponti. Il primo afferma che al di sopra di Como, posta alla base delle Alpi, abitano da un lato Reti e Vennoni, rivolti ad oriente, dall’altro Leponti, Tridentini e gli Stoni, e un gran numero di popoli che occupavano un tempo l’Italia», mentre il secondo osserva che il Reno nasce nel paese dei Leponti che abitano sulle Alpi.
La documentazione archeologica ha dimostrato come i Leponti facessero parte di un più ampio raggruppamento culturale, denominato civiltà di Golasecca, comprendente anche altre popolazioni, come quelle stanziate nella regione di Milano (Insubri) e fra Como e Bergamo (Orobi). Esse svolsero un ruolo importantissimo di intermediari negli scambi commerciali dal VII agli inizi del IV secolo a.C. tra Etruschi e Celti transalpini. Le invasioni galliche del 338 a.C. posero fine a questi fiorenti commerci tra mondo mediterraneo ed Europa centrale.
I Leponti, popolazione alpina della civiltà di Golasecca, continuarono a mante nere a lungo le proprie tradizioni culturali, ma ben presto subirono dapprima l’influenza della nuova civiltà di La Tène, introdotta nella pianura padana dai Celti (Galli) invasori, e in seguito quella romana di età tardo repubblicana.
Territorio dei Leponti e degli altri popoli della civiltà di Golasecca
Nonostante le profonde trasformazioni determinate da questi processi di acculturazione, ancora in età romana imperiale si manifestano nella regione dei Leponti tratti peculiari e autonomi.
I TRAFFICI ED IL COMMERCIO
Nelle civiltà antiche il vasellame metallico rappresentò sempre un prodotto di lusso utilizzato dalle classi sociali superiori: nei servizi per bere durante fe ste e banchetti; durante riti; come og getto di corredo nelle tombe più ricche. Lo studio analitico dei corredi funerari con vasellame bronzeo di importazio ne etrusca ha evidenziato che esso ve niva apparentemente deposto quasi esclusivamente nelle tombe di uomini. Un sicuro caso di corredo femminile con una Schnabelkanne è quello della tomba 1 di Pazzallo presso Lugano.”
Nell’ambito della cultura di Golasecca tra VIII e IV sec. a.C. si conoscono almeno duecentocinquanta vasi di metallo. La documentazione archeologica proviene per quattro quinti dalle necropoli di sole quattro aree: dintorni di Como, Golasecca, dintorni di Bellinzona, Castaneda, con un graduale spostamento nella frequenza dei rinvenimenti dall’area lombarda (VIII-VI sec.a.C.) a quella leponzia (a partire dal V sec. a.C. e, in modo quasi esclusivo, per tutto il IV), per motivi in parte dovuti all’effettivo declino di alcuni centri (comprensorio di Golasecca), in parte alle lacune della ricerca (dintorni di Como), in parte ai mutamenti intervenuti nel 388 a.C. con le invasioni galliche della pianura padana. 20% circa del vasellame bronzeo rinvenuto nel territorio della cultura di Golasecca è importato dall’Etruria. Si tratta di recipienti che nel mondo mediterraneo fanno parte del servizio per la preparazione e la consumazione del vino durante il simposio: sono attesta te soprattutto Schnabelkannen (brocche a becco per mescere), ma anche situle stamnoidi (contenitori per liquidi), kyathoi (piccole brocchette per at tingere), colini e bacili.
Nell’ambito della cultura di Golasecca e localizzabile uno dei più importanti centri di fabbricazione di vasi in lamina bronzea della prima età del Ferro: qui, tra Vill e IV sec. a.C., si conoscono almeno 250 recipienti metallici. Ad eccezione di un discreto nucleo che risulta importato dall’Etruria, essi appartengono nella grande maggioranza (80% circa) a produzioni di officine locali atti ve tra l’inizio del VII e il IV sec. a.C. localizzabili dapprima nei pressi di Gola secca e di Como e quindi anche nei dintorni di Bellinzona. Alcuni di questi prodotti, come le ciste a cordoni di tipo ticinese e le situle di tipo renano-ticine se, venivano anche esportati oltralpe. nell’ambito dei commerci tra mondo mediterraneo e mondo celtico transalpino che seguivano una rotta principale attraverso i valichi controllati dalle genti della cultura di Golasecca.
L ‘AMBRA
L’ambra è una resina fossile, secreta da conifere vissute per lo più nel Terziario (più di cinquanta milioni di anni fa) e oggi estinte. Essa si rinviene principalmente in giacimenti che formavano un tempo il fondale di lagune o foci fluviali: rami e tronchi caduti fluitati con la corrente dei fiumi verso il mare sono stati in tempi lunghissimi ricoperti dai sedimenti e la loro resina si è trasformata in ambra. I giacimenti d’ambra terziaria nel mondo non sono molto numerosi. In Europa se ne contano soltanto tre: in Sicilia, presso Catania; nei Carpazi rumeni; e il vastissimo deposito sulle rive del Mar Baltico.
Tazza in legno usata per attingere .
Grazie al sofisticato metodo di analisi della spettroscopia di assorbimento dell’infrarosso è possibile riconoscere la composizione dell’ambra, che è caratteristica per ogni singolo giacimento, e determinarne cosi la provenienza. L’ambra dei Leponti, esclusivamente di origine baltica, è testimoniata da più di tremilacinquecento oggetti per un pe so complessivo di circa 6,5 kg (grandi perle infilate in orecchini a forma di staffa o a cerchio; elementi decorativi dell’arco di fibule; vaghi di collane; se paratori di collane; pendagli) che ne fanno forse il maggior complesso noto di ambre preistoriche. L’enorme quantità di ambra presente in territorio leponzio, soprattutto tra VI e IV sec. a.C. testimonia una volta di più l’importante ruolo di passaggio di flussi commerciali svolto da questa regione e pone il problema, attualmente in corso di studio, di comprendere se essa vi sia giunta come merce di scambio diretta mente dalle regioni transalpine o dal Caput Adriae attraverso la via padana.
L’ABBIGLIAMENTO
Come si vestivano uomini e le donne nel Ticino-Insubria della prima e seconda etá del Ferro.
Particolare delle parure di una donna del popolo dei Leponti ( ricostruzione da tomba di Giubiasco 300 a.C.) Zurigo Museo Nazionale SvizzeroParticolare delle parure di una donna del popolo dei Leponti ( ricostruzione da tomba di Giubiasco 300 a.C.)
Nell VI -V secolo a.C. le donne indossavano un abito fissato sulle spalle da fibule, sotto quale veniva portata una tunica . In vita portavano cinture chiuse con placche di lamina bronzea di forma foliata o con fermagli quadrangolari . Indossavano, inoltre, orecchini con perle d’ambra, collari in bronzo, bracciali collane con vaghi d’ambra e di vetro ed anche con pendagli o bronzo.
ABBIGLIAMENTO MASCHILE
L’abbigliamento maschile doveva essere più sobrio; gli uomini utilizzavano fibule ad arco serpeggiante, più raramente e solo nelle fasi piú antiche spl loni, sia di ferro che di bronzo, e ferma in ferro, Al fianco è probabile che portassero un coltello, sempre di ferro. Nella seconda meta del V secolo si introducono anche presso i Leponti ele menti caratteristici della civita celtica di La Tene, dapprima nel costume maschile e gradualmente in quello femminile , che rimane più a lungo legato alla tradizione golasecchiana, come per esempio ganci a traforo in bronzo e in ferro Le fibule La Tene sostituiscono poco a poco i tipi precedenti che dalla metà del III secolo scompaiono definitivamente .
La descrizione dell’ abbigliamento maschile delle popolazioni celtiche da parte delle fonti classiche, potrebbe almeno in parte valere anche ser popolazioni lepontiche del Ticino durante la seconda eta del Ferro: -vestono con abiti stravaganti dele tuniche colorate dove si mescolano tutti i colori e dei pantaloni che chiamano braghe. Vi agganciano sopra de saii rigati di stoffa, a pelo lungo d’inverno e liscia d’estate, a fitti quadrettini di tutte le gradazioni (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 28-30), cosí come il gusto, definito smodato per gli ornamenti: portano dei gioielli d’oro, catene intorno al collo, anelli attorno alle braccia e ai polsi (Strabone Geograha, N. 4, 51 )Al fianco era sospesa una lunga spada, che poteva avere ina impugnatura e puntale decorati con in crestazioni di smalto o corallo.
LE ARMI
I Rinvenimenti di armi nella quasi totalita da corredi funerari, indicano con chiarezza che i Leponti non svilupparono un armamento originale, ma si ispirarono all’equipaggiamento di altre popolazioni, in parte utilizzando elementi importati in parte producendone imitazioni.
Durante la prima eta del Ferro nell ‘area della cultura di Golasecca, dove le armi si rinvengono solo nelle più ricche tombe dell’elite guerriera, si rivela un complesso intreccio di influssi dalle regioni in transalpine nord-occidentali e dal mondo etrusco e piceno.
Verso la meta del VI sec. viene rielaborato localmente a partire da un modello i del Piceno un tipo di elmo a calotte con borchie e gola, documentato da pochi esemplari . Particolare importanza assume nel V sec. l ‘ elmo tipo Negau caratteristico elemento dell armamento da difesa etrusco: in ambito golasecchiano ne sono testimoniali sia esemplari importati sia imitazioni locali.
Molto precocemente avverte anche influsso della nuova cultura La Tene, le cua tipiche lunghe spade in ferro con fodero con puntale trilobato compaiono in Canton Ticino nella seconda meta del V secolo a.C. Appartengono a questa tradizione anche elmi in ferro anziche in bronzo come era invece di uso comune nel mondo mediterraneo . Nel corso del III- II sec. a.C. il numero delle tombe di guerriero cresce vertiginosamente nelle necropoli leponzie sia in Ticino che nella Val d’Ossola . Durante il I secolo a.C. si fa evidente l’influsso dell’equipaggiamento de legionari romani nella spada corta e dotata di fodero in legno con bande metalliche, simile al gladius, e in esemplari isolati di pugnali ed elmi
Dopo L annessione del territorio leponzio all’impero romano cessa definitivamente l’uso di deporre armi nelle tombe.
LA LINGUA E L’ALFABETO
Nel 1817 fu ritrovata a Davesco una stele funeraria con due figure antropo- morfe che racchiudevano un’iscrizione ciascuna in un alfabeto ancora scono sciuto. Da allora sono state scoperte altre iscrizioni simili su pietra, una doz- zina nel Sottoceneri ed altre ancora nella zona di Como, a Vergiate, e in alcune località della provincia di Novara. Brevi iscrizioni graffite un alfabeto molto simile si notarono anche tra le ceramiche che si scoprivano nelle necropoli della zona di Como e, più numerose, in quelle di Ornavasso, di Solduno, di Giubiasco, e nell’abitato protostorico dei dintorni di Como.
Oggi possediamo un patrimonio relati vamente ampio di iscrizioni riferibili al territorio delle popolazioni della civiltà di Golasecca (Leponti, Orobi e Insubri), databili da fine Vil-inizi VI sec, a.C. al Bronzo. I sec. a.C. e che permettono di rico- struire le vicende linguistiche preromane di quest’area.
L’alfabeto in cui sono redatte fu deno- minato nordetrusco nel 1853 da Theo dor Mommsen e di Lugano- (termine utilizzato ancor oggi) da Carl Pauli nel 1885. Inoltre, il Pauli defini leponzio.
la lingua di queste iscrizioni, afferman done l’appartenenza alla famiglia delle lingue celtiche, fatto che venne defini tivamente dimostrato solo nel 1971 da Michel Lejeune.
Nell’alfabeto leponzio, si riconosce oggi un’evoluzione in due fasi: la più antica è databile al VI, V e parte del IV sec. a.C., la più recente dalla fine del IV fino a tutto il I sec. a.C. L’accertamento della datazione delle prime iscrizioni le ponzie al VI e al V sec. a.C. è di notevole importanza poiché dimostra che nell’area della cultura di Golasecca era parlata una lingua celtica ben prima delle invasioni galliche dell’Italia setten trionale (388 a.C.) e quindi che la celticità delle popolazioni di tale area si è formata in un’epoca molto antica, risalendo probabilmente fino all’età del bronzo.
Le iscrizioni leponzie appartengono, allo stato attuale delle conoscenze, a poche categorie: dediche votive; epitaffi sepolcrali su stele di pietra; marchi di proprietà graffiti sulle ceramiche; legende monetali; cui si aggiunge un caso isolato di serie alfabetica parziale.
LA MONETAZIONE
La moneta appare pressoché assente nell’area leponzia fino al II- inizi del Isec. a.C. quando, in tutto l’attuale Cantone Ticino, sono attestate numerosissime monete celtico-padane, sia in ripostigli che in corredi funerari, mentre risulta assente la moneta romana medio e tardo-repubblicana.
Celti. Gallia Cisalpina, Leponzi. Dracma, imitazione del tipo massaliota, II sec. a.C. D/ Testa di Artemide a destra. R/ Toutiopouos in caratteri leponzi e , leone stilizzato gradiente a destra. Cf. Pautasso, Pl. LIII, 273 ff. AG. g. 2.06 mm. 16.00 RR. SPL.
Tale territorio per il quale si possono escludere emissioni locali-era quindi estraneo alle correnti di traffico che impiegavano moneta romana e importava unicamente moneta argentea padana, utilizzandola sporadicamente in tomba o raccogliendola in complessi forse di natura votiva e creati da un accumulo di singole offerte protrattosi nel tempo. Simili modalità di formazione, a carattere rituale e votivo e non economico né di tesaurizzazione, possono spiegare sia la coesistenza di monete emes se anche a distanza di molti decenni che non possono aver circolato insieme, sia la selezione degli esemplari con l’esclusione della moneta romana. L’area si sarebbe quindi mantenuta a lungo in una cultura premonetaria, nella quale il circolante, proveniente tutto dalle zecche celtiche della pianura padana, non supportava ancora forme di economia avanzata, alla quale invece avevano ormai accesso le popolazioni oltre il confine. Nel territorio del Basso Toce, invece, dove erano stanziate gen ti pagate dai Romani per proteggere i confini, le monete sono quasi tutte ro mane, con pochi esemplari celtico-padani.
E forse solo nel sec. a.C., a ridosso delle guerre alpine di Augusto e quindi dell’integrazione nel territorio controllato direttamente da Roma, che tra i Leponti penetra una prima cultura monetaria, con una spiccata preferenza per le ultime emissioni insubri, con legenda rikoi, che vengono ritrovate anche isolate.
Analoga cultura monetaria, non sappiamo però se più legata alla pratica della deposizione votiva o alla funzione commerciale, si sviluppava nello stesso periodo nel Vallese, tra Veragri, dove però si giunse a coniazioni locali di imitazione.
Dopo l’annessione del territorio leponzio tra il 24 e il 15 a.C., come per le altre valli -pacificate dalle armi romane, l’integrazione nella cultura italico-romana avvenne in termini accelerati, certo favorita dalla riapertura dei traffici attraverso i passi alpini, con la riattivazione sicura di molti percorsi prima controllati dalle popolazioni alpine. Il territorio dell’attuale Canton Ticino entrò allora nella cultura monetaria della pianura, come dimostrano gli scavi di Muralto-Park Hotel, dove la monetazione augustea è molto ben rappresentata ed è invece assente la moneta celtico-padana.
Il contatto fra la popolazione lepontica ed i Romani avviene in modo graduale a seguito dell’espansione romana nella pianura padana nel Il secolo a.C. In questo periodo è presumibile che anche i Leponti siano stati indirettamente o di rettamente in contatto con i Romani impegnati negli scontri con gli Insubri ei Comensi. D’altro canto contatti commerciali e culturali con gruppi stanziati nella pianura padana, che vengono progressivamente integrati nel sistema amministrativo ed economico romano, proseguono senza interruzione anche nel Il e nel I secolo a.C.
Vetri di epoca romana dal territorio dei Leponti
Nella seconda metà del I secolo a.C. nel corredi tombali del Cantone Ticino si nota una maggiore presenza di materiali di tipo romano (ceramiche, bronzi, monete) che rivelano l’intensificarsi dei rapporti. Le tappe più importanti di questo processo sono: nel 59 a.C.la fondazione da parte di Cesare di una colonia di veterani a Como (Novum Comum); – nel 42 a.C. l’unione giuridica e amministrativa della Cisalpina al resto dell’Italia;
dal 35 al 15 a.C. le campagne militari di Augusto, volte a sottomettere le popolazioni alpine per assicurare, fra l’altro, i transiti commerciali e mi litari attraverso le Alpi.
Anche parte dei territori dell’odierno Cantone Ticino vengono integrati nella Regio XI Transpadana; in base alle po che testimonianze epigrafiche si può desumere che il Sottoceneri è assegnato amministrativamente al municipio di Como, il Locarnese verosimilmente a quello di Milano, mentre i territori più settentrionali fanno parte del la provincia della Rezia.
In Ticino sono molto scarse le tracce di abitati della fine del I secolo a.C.: in questo periodo viene fondato il villaggio (vicus) di Muralto, che funge da testa di ponte dei commerci provenienti dalla pianura padana tramite la via d’acqua Po’ Ticino Verbano e diretti a nord; Muralto diviene così il centro d’irradiazione della cultura romana nella regione. Sulla collina di Castel Grande a Bellinzona doveva esistere probabilmente una postazione di guardia, mentre villaggi sparsi nel Sottoceneri sono finora sconosciuti.
LA ROMANITÀ SI AFFERMA
A partire dagli inizi del I secolo d.C. l’in flusso della cultura romana diventa predominante nei modi di vita e nei costumi della popolazione lepotica.
Il processo di trasformazione, testimoniato soprattutto dagli oggetti che vengono deposti nelle tombe come corredo funerario, si afferma però in modo più lento nelle valli alpine rispetto alla pianura lombarda; all’interno del terri torio ticinese si nota inoltre che gli influssi esterni vengono adottati più velocemente e in modo più completo nei piccoli centri, come a Muralto, rispetto alla periferia e alle valli.
Nelle necropoli legate vicus di Muralto i ceti più alti della popolazione, rappresentati dalle famiglie che erano state a capo delle comunità celtiche dell’età del Ferro, ostentano la propria ricchezza e la propria posizione di potere locale tramite la costruzione di tombe a camera (a inumazione) con piccoli monumenti funerari di tipo ro mano e corredi particolarmente ricchi. La cremazione, diffusa nel Sottoceneri, più direttamente in contatto con il centro di Como, è invece molto limita ta nelle necropoli del Sopraceneri, a riprova del perdurare anche in epoca romana di differenziazioni locali già presenti durante l’età del Ferro.
Gli insediamenti noti nel Sottoceneri sono rappresentati da resti di ville rurali, a cui dovevano essere legati appezzamenti non molto estesi di terreno coltivabile, e gravitavano nella sfera di influenza di Como; pure attestata è la pesca, come a Melano. A Bioggio é stato rinvenuto l’unico tempio di tipo romano di tutto il territorio cantonale, da tato al Il secolo d.C.. un piccolo edifi cio su podio, dedicato a Giove, come indica l’iscrizione sull’ara ivi rinvenuta. La piccola necropoli di Roveredo, nella valle Mesolcina, presenta gli elementi della Romanità peculiari del Soprace neri, dove nel I secolo d.C. persistono elementi di tradizione lepontica sia nel l’abbigliamento che nel rito funerario accanto ad importazioni di gusto romano,
Quando parliamo dei popoli antichi che hanno abitato la regione Padana ed Alpina ,quella che sarà chiamata poi dai Romani Gallia Cisalpina , dobbiamo ovviamente pensare ad un vero e proprio mosaico di tante diverse popolazioni . Ad esempio, parlando dei Galli essi erano diversamente cugini tra loro . Insubri e Cenomani avevano avuto una diversa etnogenesi solo per fare un esempio.. Altri popoli Celti, i Boi e soprattutto i Senoni erano fortemente fuse con le popolazioni etrusche ed umbre tanto da creare una koinè celto- italica.
Nel Piemonte e sugli Appennini la commistione con Liguri fu ancora più forte. Altre popolazioni come i Camuni e i Triumphilini erano definiti come Euganei e seppur molto affini ai Reti avevamo assorbito anche molti elementi etruschi, celtici e venetici. I Reti sulle Alpi, affini ai Tirreni per lingua, avevano anche loro assorbito molti elementi celtici e venetici così come i Veneti ,affini a loro volta linguisticamente ai Latini. Nel video che qui segue il vicedirettore del Gruppo Archeologico Comasco ci descrive appunto questo complesso mosaico di popoli e nazioni. Buona visione .
Mergozzo è considerato la porta della Val D’Ossola . Abitato dai Leponzi ha poi seguito le vicende della romanizzazione della ‘arco alpino
Il museo antiquarium
Una piccola mostra di materiale archeologico del territorio di Mergozzo, allestita nell’estate del 1969, fu motivo di incontro per un gruppo di appassionati delle più antiche testimonianze storiche del paese. Si costituì così, sotto forma di comitato, il Gruppo Archeologico di Mergozzo (G.A.M.) che, nell’antica Casa del Predicatore concessa dalla Parrocchia, cominciò a raccogliere in custodia conservativa il materiale archeologico che fu possibile reperire presso vari privati che ne erano in possesso o emerso dagli scavi condotti negli anni a Mergozzo ed in altre località provinciali. Divenuta inadeguata la sede originaria, grazie all’intervento del Comune di Mergozzo e della Regione Piemonte, con il coordinamento della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte, a partire dal 2003 i materiali sono stati trasferiti in una nuova e più moderna sede, rispondente agli attuali criteri di sicurezza ed accessibilità, inaugurata nel settembre 2004.
Descrizione del materiale esposto: Il museo è articolato in due sezioni, una dedicata alla tradizione della lavorazione della pietra, una a carattere archeologico. Al primo piano la sezione “della pietra” ospita strumenti ed attrezzi del lavoro tradizionale dei cavatori e degli scalpellini che coltivarono le cave di granito di Montorfano e di marmo di Candoglia; accanto agli attrezzi sono esposti alcuni manufatti in pietra da contesti archeologici: epigrafi preromane e romane, opere medievali dal sito di Montorfano. Tra le testimonianze “di pietra” si segnalano quattro grandi steli funeriarie in pietra da Brisino (Stresa) che conservano i nomi dei defunti trascritti nel locale alfabeto leponzio (I secolo a.C.). Al secondo piano il percorso si articola in due sale, proponendo reperti archeologici ordinati secondo criteri cronologici. I reperti più antichi risalgono alla fine dell’età della pietra ed all’età del bronzo: si tratta per lo più di industria litica proveniente da Mergozzo, accanto al famoso pugnale in bronzo dell’Arbola e a materiali da altre località (Baceno, Cireggio, Grassona di Cesara). I reperti archeologici individuati sui terrazzamenti sovrastanti Mergozzo ed il lago dimostrano come l’uomo si sia insediato in queste zone almeno 5000 anni or sono. I ritrovamenti costituiti per la maggior parte da attrezzi in selce e frammenti ceramici risalenti ad un periodo comprendente il III ed il II millennio a. C. fanno pensare a capanne di legno e paglia, per un esiguo numero di abitatori dediti alla caccia, alla pesca e successivamente ad un’arcaica forma di agricoltura.
Tra questi materiali si segnalano per l’interesse documentario le asce da combattimento in pietra da Baceno e da Mergozzo risalenti al terzo millennio avanti Cristo. La tarda età del ferro è invece rappresentata dai corredi della necropoli di Carcegna (I secolo a.C.) e da una spada celtica con fodero da Mozzio di Crodo, testimonianze della locale popolazione leponzia, dedita alla pastorizia, alla caccia, alla guerra ed aperta ai contatti commerciali con il mondo romano e transalpino.
Grazie alla sua posizione quale luogo di transito Mergozzo assunse decisiva importanza in epoca romana. Una seconda sala illustra questo periodo, attraverso i materiali dai numerosi scavi effettuati in questa località, che consentono di cogliere sia i costumi funerari (due necropoli sono state riportate alla luce in località Cappella e Praviaccio, con nuclei tombali attribuibili dal I al III secolo d. C.), che alcuni aspetti della vita quotidiana e delle tecniche produttive antiche, (i resti di una fornace per laterizi databile ai primi secoli dell’Impero e le fondazioni di un edificio sono state rinvenute in località Robianco). Inoltre le vestigia di un grande edificio, un sacello, un’ara dedicata a Giove e varie tombe sono state scoperte in frazione Candoglia.
Accanto ai più comuni oggetti di vita quotidiana, vasellame in ceramica e vetro, ornamenti personali, attrezzi da lavoro, si segnalano alcuni reperti più rari o curiosi, quali le pedine colorate in vetro per il gioco di strategia dei latrunculi, o, ancora, uno stilo scrittorio in ferro. In particolare provenienti dalla necropoli alla “Cappella”, scoperta da Egisto Calloni nel 1898, sono esposti i corredi completi di sei tombe, rinvenute nel 1970, comprendenti due olpi, una lucerna, varie monete e altri oggetti che concorrono a datare la necropoli al I e II secolo d.C. Della necropoli in località “Praviaccio” sono esposti i corredi completi di sette tombe. Il materiale comprende ceramica di imitazione campana, coppette in terra cinerognola a pareti sottili, olpi di forme e dimensioni differenti, lucerne, fusaiole, balsamari in vetro, fibule in bronzo e in ferro, punte di lancia, un’ascia, anelli e numerose monete di bronzo (I – III sec. d.C.) Chiudono il percorso i reperti delle tombe tardo antiche (IV-V secolo d.C.) di Carcegna e quelli altomedievali di san Giovanni in Montorfano, aprendo uno sguardo sulla fine del mondo antico e la Cristianizzazione del territorio. Nei costumi funerari si osserva il ritorno del rito inumatorio con la deposizione nelle sepolture di corredi comprendenti gruzzoli di diverse decine di monete. I reperti dall’area di San Giovanni in Montorfano rivelano invece l’impianto di una delle prime chiese cristiane con annesso battistero (VI secolo d.C.).
Il museo raccoglie reperti archeologici che testimoniano della presenza umana sulle Grigne fin dall’epoca preistorica. Ma di particolare rilievo per la storia di Esino è stata la presenza di popolazioni celtiche e romane.
Dei primi, che occuparono il territorio tra il IX-I secolo a.C. portandovi la cultura di Golasecca e in seguito di La Tène, sono stati ritrovati i corredi funebri, con fibule (spille per abiti sia maschili che femminili), armille (bracciali e braccialetti sempre sia maschili che femminili), pendagli e ceramiche (urne cinerarie connesse al rito).
Le tombe dei guerrieri hanno consentito di studiare il loro vasto armamentario che consisteva in lance, spade, foderi, coltelli e scudi. Sono stati trovati anche oggetti come rasoi, pinzette e cesoie. Una particolarità interessante dei riti funebri del guerriero si osserva nelle spade, che venivano deformate per renderle inutilizzabili.
Per quanto riguarda i Romani, in paese sono state trovate delle tombe di inumati talora con corredo funebre, con monete del IV secolo, dadi in bronzo, vasellame e altri oggetti.
→ vedi gli oggetti della collezione archeologica del Museo delle Grigne su Wikimedia Commons
LO STUDIO DELLE ARMI E DEI METALLI DI EPOCA CELTICA E ROMANA
Tesi di Laurea in Scienze e Tecnologie per lo studio e la conservazione dei Beni Culturali Martina Pensa da ” Resegone online”
Esino Lario, Isen in dialetto esinese, la “perla delle Grigne”, è un piccolo paese di 747 abitanti situato ad un’altitudine di 910 metri s.l.m. nella Val d’Esino, che sovrasta il lago di Como in provincia di Lecco. Il paese, di fatto unificato solamente dopo la prima guerra mondiale, risultava originariamente diviso in due: rispettivamente Cres e Piach. A Cres vi sono tracce archeologiche di epoca celtica e a Piach per lo più di età romana. A oggi in questo territorio non sono state condotte campagne archeologiche sistematiche, dunque il presente progetto è il punto di partenza per l’avvio, con l’appoggio del Comune di Esino Lario e della Soprintendenza ai Beni Culturali della Lombardia, di ricerche scientifiche sul passato di questo paese. La prima fase di questa collaborazione, illustrata in questa serata si concentra sullo studio preliminare dei ritrovamenti Celtici conservati nell’Eco-museo, con particolare attenzione agli aspetti riguardanti la storia e l’identificazione di una produzione locale attraverso le tecnologie di ricerca scientifiche.
Esino Lario rappresenta una scelta ottimale per uno studio sperimentale di questo tipo proprio anche alla luce della conformazione geomorfologica del paese che, racchiuso tra vallate impervie, costituisce un ambiente circoscritto poco aperto ad influssi esterni. In prima istanza un veloce inquadramento dei ritrovamenti e approfondimento delle problematiche legate alla conformazione geomorfologica del territorio (orogenesi, sfruttamento minerario e vie di passaggio), ritenuti fondamentali nella comprensione dei risultati ottenuti.I reperti di età celtica del Museo delle Grigne che sono stati analizzati sono ventiquattro e di diversa tipologia: spade, lance, un umbone e attrezzi di vita quotidiana come cesoie e un rasoio, una verghetta e una fibula.Come elementi di confronto, sono stati considerati anche due reperti romani, una punta di lancia e una cuspide di lancia ritrovati in loco.
Per poter poi inquadrare le caratteristiche degli elementi emersi dalle analisi sono stati quindi presi in considerazione come campioni di confronto alcuni manufatti cronologicamente affini conservati presso il Museo Civico Guido Sutermeister di Legnano (Mi) e altri provenienti dal Museo Civico Etnografico Archeologico C.G. Fanchini di Oleggio (No); si tratta di una punta di lancia e di un coltello da Legnano e di un umbone e di una punta di lancia e una cesoia da Oleggio. I reperti di Legnano provengono dallo scavo di un insediamento di Magenta, particolarmente significativo per i nostri studi perché sufficientemente lontano per ipotizzare un approvvigionamento del ferro dal gruppo delle Grigne.
Il secondo gruppo di reperti proviene invece dalla necropoli di Oleggio, un sito che, per la vicinanza al lago Maggiore e alle aree di approvvigionamento di ferro circostanti, doveva reperire i minerali di ferro più verosimilmente da miniere di questo territorio. Sono stati inoltre considerati alcuni campioni di rocce provenienti da una delle antiche miniere in località Cainallo, a Esino Lario, al fine di evidenziare una possibile correlazione appunto tra queste miniere e i reperti. Per tutti i manufatti sono state realizzate fotografie ad alta definizione, utilizzando una semi-sfera per diffondere uniformemente la luce in modo da non creare ombre e riflessi ed un colorchecker per la calibrazione dei colori. Le fotografie, eseguite anche in vista del catalogo del Museo delle Grigne, sono poi state elaborate mediante l’utilizzo di photoshop.
La composizione elementare è stata determinata con l’analisi della fluorescenza X caratteristica (XRF) che consente di rilevare gli elementi in traccia presenti nei reperti, costituiti principalmente da ferro. Questa analisi è stata eseguita al Laboratorio Diart di Milano trasferendo in accordo con le varie Soprintendenze i reperti. Dopo aver rielaborato i dati ottenuti si è eseguita l’analisi delle componenti principali che ha mostrato che i campioni celtici locali formano un gruppo continuo, anche se non compatto, caratterizzato da zinco, titanio, cromo e arsenico, elementi presenti in traccia anche nelle rocce di miniera, compreso l’arsenico, assente viceversa in tutti i campioni di confronto. La presenza di questo elemento chimico tossico è nota in questo territorio a seguito dei problemi causati per anni agli esinesi per la sua massiccia presenza anche nelle falde acquifere.
Tutti i campioni non locali mostrano peraltro, oltre al ferro, una diversità nella tipologia e nella quantità delle tracce presenti. Anche i reperti locali romani presentano un numero minore di elementi in traccia, comparabile con quelli dei manufatti di Magenta; in particolare spicca l’assenza di arsenico che suggerisce quindi la possibilità di una produzione non locale. Tale risultato potrebbe essere messo in relazione con i dati storici poiché è noto che nei presidi Romani più antichi venivano inviati armati direttamente da Roma e le aree di approvvigionavano di metalli vennero progressivamente concentrate in alcuni distretti minerari più ricchi. I Romani avevano probabilmente prescelto, come si è detto, lo stanziamento nella parte inferiore dell’abitato dove il ricco territorio offriva sia campi da coltivare e prati per il bestiame e zone, come San Pietro in Ortanella, utili per il controllo dei i traffici da e verso la Valsassina e le vie di transito lungo l’alta via del Lago di Como.
Lo stanziamento nella parte alta dell’attuale paese, che può forse essere messa in relazione con lo sfruttamento delle miniere soprastanti, appare viceversa più strategica nella fase celtica precedente, a possibile conferma di un significativo mutamento degli indirizzi economici di questo territorio. Le analisi condotte in questo studio confermano dunque che le miniere di Esino costituirono la fonte di estrazione dei metalli con cui vennero fabbricati gli utensili della panoplia del guerriero (spade, lancia, umboni) e gli oggetti della vita quotidiana (fibule, verghette, rasoi, coltelli e cesoie) del periodo celtico e probabilmente rappresentarono una delle spinte più significative nella risalita fino a queste valli delle popolazioni di Oltralpe che almeno dal IV secolo a.C. si stanziarono nel territorio del Nord dell’Italia. L’ elevato numero di armi rinvenute fa presagire che proprio il controllo e la strenua difesa di queste ricche risorse economiche caratterizzasse in modo significativo la struttura sociale di questo stanziamento e dei suoi individui sepolti nella Valle di Esino.