I vasi di bronzo costituiscono una particolare tipo di vasi ad uso domestico. Realizzati per durare a lungo , rappresentavano un patrimonio familiare che passava da madre in figlia per generazioni . Questa particolare preziosità antica, rende più difficile una fine identificazione cronologica . Tuttavia è possibile in ogni caso identificare in Gallia Cisalpina almeno tre fasi principali di utilizzo del vaso di bronzo. Questi tre periodi vanno dal 388 aC al periodo augusteo e ricalcano la divisione cronologica del periodo La Tène. Lo studio cerca di definire le forme e le tipologie dei vasi di bronzo, il loro legame con il rango sociale in Cisalpina utilizzando come area privilegiata l’area veronese ( Povegliano soprattutto). Tale zona ha permesso di osservare infatti almeno 150 esemplari, databili dal IV/III secolo a.C. all’età augustea in gran parte recuperati da contesti funerari.
PRIMO PERIODO: (388-130a.C)
Nonostante l ‘invadione gallica del 388 a.C. prosegue la produzione locale, rappresentata da recipienti destinati al consumo del vino o di altri tipi di vevande fermentate. Nelle aree occupate dai Leponti e dagli Insubri sono attestate le situle (tipi Pianezzo, Cerinasca e Castaneda), le capeduncole,le brocche a becco (Tessiner Kannen). Sono recipienti prodotti nel Sopraceneri – per le brocche a becco anche nel Comasco – e attestati nell’area occidentale della Cisalpina, tra il Canton Ticino e la Bergamasca, sui quali non mi soffermo in questa sede perché esaurientemente analizzati da De Marinis in occasione della mostra sui Leponti , e ancora più recentemente, da Nagy e Tori per la necropoli di Giubiasco. Produzioni locali sono ben attestate anche in area Cenomane – mi riferisco alle fiasche da pellegrino, con gli esemplari della tomba di Castiglione delle Stiviere e
Brocca a becco di area Lepontica
in area veneta e retica, dove permane la produzione di situle a sbalzo e di simpula. Sono attribuite a officine locali, che continuano una tradizione lunga e feconda, Le situle di Este, da quelle a corpo troncoconico e sinuoso della tomba Ricovero 23, la famosa tomba di Nerka Trostiaia, a quelle istoriate delle tombe Boldù-Dolfin 52–535. Per le situle è stata identificata anche un’area di produzione tra le valli dell’Adige e del Piave, con uno o più ateliers che operano nel IV secolo unendo elementi di tradizione halstattiana a motivi di influsso celtico ed etrusco. Anche i simpula prodotti a partire dal IV secolo riprendono e rielaborano il tipo etrusco a vasca emisferica e manico verticale, ma con il manico a nastro applicato con ribattini alla vasca.Nel santuario di Lagole di Calalzo(Belluno) questi attingitoi sono utilizzati anche nei rituali delle acque.
Vasellame d’importazione
Per quanto riguarda invece le importazioni di vasellame di bronzo dall’Etruria, che avevano caratterizzato tra VI e V secolo a.C. lo sviluppo dell’Etruria padana e della civiltà di Golasecca, si ha effettivamente una contrazione in seguito all’invasione gallica del 388 a.C., che non sembra però toccare l’area di Spina, dove recipienti e candelabri di bronzo caratterizzano sia le tombe dell’ultimo quarto del V secolo, sia quelle del primo quarto del secolo successivo.
SECONDO PERIODO ETÀ LT D
Con l’età tardorepubblicana, corrispondente in ambito padano al LT D (130–15 a.C.), la presenza di vasellame di bronzo d’importazione si fa numericamente più rilevante e più varia quanto a tipi rappresentati. Per la Gallia Cisalpina si possono considerare ancora validi i saggi sulle varie forme e le liste di distribuzione elaborati in occasione dellatavola rotonda di Lattes, La vaisselle tardo-républicaine en bronze (Feugère, Rolley (eds.) 1991), con aggiornamenti relativi all’asse Ticino-Verbano e, sul versante opposto, al Caput Adriae al territorio dell’attuale Lombardia, con specifiche dedicate al Comasco e al territorio di Bergamo; molto si attende, inoltre, dalle necropoli del Veronese che sono state scavate recentemente e sono attualmente in corso di studio. Più numerosi, a tutt’oggi, gli aggiornamenti e le pubblicazioni di recipienti di età tardorepubblicana in ambito europeo In linea generale, si può osservare che alle padelle tipo Montefortino e Povegliano si sostituiscono le padelle tipo Aylesford, con vasca fortemente convessa e il caratteristico motivo a spina di pesce sul labbro (cfr. Tav. 5: XXVI/7), che formano una coppia funzionale con le brocche carenate tipo Gallarate e, talora, anche con le brocche a corpo piriforme tipo Ornavasso-Ruvo,Ornavasso-Montefiascone,Kelheim e Kjaerumgaard.
Le brocche tipo Gallarate, bitroncoconiche a carena bassa con ansa terminante a foglia cuoriforme e puntale, sono a tutt’oggi, insieme alle padelle Aylesford, le forme più rappresentate nei contesti funerari di questo periodo; che in Gallia Cisalpina le padelle rivestissero un ruolo fortemente simbolico all’interno dei servizi da banchetto, è indiziato dalla frantumazione rituale del recipiente durante i riti di sepoltura e dalla deposizione sul rogo funebre. Del successo delle brocche bitroncoconiche possono essere indicative le imitazioni “povere” in terracotta attestate già dal terzo quarto del II secolo a.C. in Grecia, e la presenza, nel santuario di Delo,frequentato da mercanti e visitatori italici, di una matrice in calcare riferibile ad una forma a carena bassa di piccole dimensioni.
Padella tipo Aylesford. Museo di Mergozzo
TERZO PERIODO-ETA’ AUGUSTEA
Con l’età augustea, il nuovo dinamismo economico della Cisalpina, legato all’espandersi delle strutture produttive transpadane e all’apertura della zona centropadana a più veloci circuiti commerciali, vede la rapida diffusione di un repertorio di forme in parte legato alla serie tardorepubblicana, della quale vengono riproposti elementi strutturali e ornamentali, in parte del tutto innovativi.
Nella tomba 16 della necropoli del Colabiolo di Verdello (Bergamo), ad esempio, datata in base a una moneta e un boccale del tipo Aco intorno al 20 a.C.88, è già presente una brocchetta “moderna”, di produzione verosimilmente campana89. Si tratta infatti di un recipiente riconducibile alle serie Tassinari C1224, che trova un confronto puntuale con una brocchetta di Levate (Bergamo), da una tomba di età augustea . Alcune forme tardorepubblicane, del resto, risultano ancora in produzione, come le padelle tipo Aylesford, che continuano con una produzione bollata da Cornelius, alla quale sembrerebbe appartenere anche l’esemplare rinvenuto a Domodossola in una tomba di età prototiberiana, e le brocche carenate tipo Gallarate con labbro arricchito da un kyma ionico91. Anche i simpula-colini continuano ad essere prodotti con il tipo Radnόti 40, con vasca larga a fondo piatto (Fig. 17), datato tra il 20/15 a.C. e il 10/15 d.C.92 Appare legata alla serie tardorepubblicana anche la brocca tipo Tassinari C1210, attestata in Italia centrale (a Pompei, nel Viterbese e in Val di Cornia) e in Italia settentrionale a Genova, Fino Mornasco (Como), Castrezzato (Brescia).
Come riuscire ad identificare la datazione di un reperto proveniente dal territorio della Gallia Transpadana centro-occidentale ?
Prendendo a riferimento il periodo compreso tra la metà del II sec. a.C. e il regno di Augusto (30 a.C.) dobbiamo innanzitutto appoggiarci a materiali provenienti principalmente da necropoli (fig. 1), mentre sono ancora rare le sequenze stratigrafiche degli abitati ben documentate.
Per la cronologia del La Tène padano si fa riferimento alla periodizzazione proposta da Raffaele De Marinis (tabella 1)3, basata essenzialmente sui ritrovamenti lombardi, tuttora comunemente utilizzata sia per i contesti lombardi sia anche per i ritrovamenti lateniani del Piemonte e del Veneto. Su questa cronologia si basano anche le datazioni proposte da Luciano Salzani per le necropoli sopra ricordate. Pur tenendo conto che questo quadro cronologico, con l’affinamento delle datazioni ceramiche e soprattutto di altri materiali, come le armi e le fibule, oggetto ultimamente di vari studi tipo-cronologici, necessita di un aggiornamento, al momento si ritiene comunque un valido punto di riferimento.
I materiali sono numerosi e vari e documentano ciò che era in uso contemporaneamente in un certo periodo utilizzando una cronologia mutuata da quella utilizzata in Europa Centrale, dove questi centocinquanta anni sono stati suddivisi in quattro periodi principali:
La Tène C2 finale,
La Tène D1,
La Tène D2,
età augustea1.
Gli autori dello studio hanno cercato di articolare il periodo Tardo La Tène della Transpadana centro-occidentale in una sequenza di sei orizzonti cronologici della durata di circa una generazione. Questa partizione è stata effettuata prendendo come fossile guida le fibule diffuse localmente confrontate con le forme di vasellame ceramico e dalle sue combinazioni.
LE FIBULE COME FOSSILE GUIDA
A. Fibule di schema Medio La Tène a staffa corta (di lunghezza notevolmente inferiore alla corda dell’arco)4. Il gruppo comprende diversi tipi individuabili in base al materiale, alla forma dell’arco e alla lunghezza della molla
B Fibule di schema Tardo La Tène di ferro a molla bilaterale lunga e corda esterna. Il gruppo comprende due tipi individuati in base alla forma dell’arco.
CFibule di schema tardo La Tène “tipo Nauheim” caratterizzate da arco ribassato, molla bilaterale di 2 spire per lato e corda interna
D Fibule di schema tardo La Tène “a testa coprente”6, in ferro e in bronzo, con arco di lamina triangolare la cui estremità copre parzialmente o totalmente la molla, molla bilaterale di 2 o 3 spire per lato, corda esterna o interna.
E Fibule di schema tardo La Tène “ad arpa”: in bronzo, arco asimmetrico rialzato a gomito verso la molla e ornato da un nodulo, molla di tre spire per lato e corda esterna.
F Fibule di schema tardo La Tène ad arco rialzato, in ferro e in bronzo, molla di due spire per lato e corda interna.
G Fibule di schema tardo La Tène con arco “a noduli” (Knotenfibeln): in bronzo, arco filiforme asimmetrico, rialzato verso la molla dove è ornato da noduli, molla di due spire per lato a corda esterna, staffa triangolare traforata o chiusa.
H. Fibule a cerniera. Al loro interno si possono individuare due grossi gruppi, estremamente articolati ma la cui documentazione grafica e fotografica è spesso inadatta a una più precisa classificazione.
Associando alle fibule le tipologia dei reperti ceramici si sono quindi indicati 6 periodi storici.
SE VOLETE APPROFONDIRE L ARGOMENTO VI INVITIAMO ALLA LETTURA DELL ‘ARTICOLO PRESENTE SU ACADEMIA.EDU DI PAOLA PIANA AGOSTINETTI
Palasio alcune tombe con corredi, mentre 30 sepolture riemergono tra il viale 1814 e via Ferriere: trovati qui anche 4 tumuli, una novità in Ticino.
TRANSPADANA , RAETIA AI TEMPI DI AUGUSTO
Doppia importante scoperta archeologica a Giubiasco: nelle scorse settimane in una grande parcella di terreno situata tra il viale 1814 e la via Ferriere, durante i lavori per una nuova edificazione, sono emerse una trentina di tombe da riferire all’Età del Ferro, risalenti perciò al Sesto-Quinto secolo avanti Cristo. Il terreno – spiega l’Ufficio cantonale dei beni culturali in un comunicato stampa – era occupato da una serie di edifici a carattere industriale, demoliti per lasciare spazio alla costruzione di un palazzo residenziale, nel frattempo quasi giunto a tetto. Ma non è tutto: alcune centinaia di metri verso montagna, in via Rompeda nella zona del Palasio, area conosciuta da decenni dal profilo archeologico, sempre nel corso di un cantiere edile di dimensioni più ridotte sono emerse alcune tombe, pure risalenti all’Età del Ferro. In questo caso una sepoltura conservava un vaso pre-trottola, una ciotola e un bicchiere a calice in ceramica, così come due fibule in ferro, indica a ‘laRegione’ Rossana Cardani Vergani, caposervizio archeologia dell’Ufficio beni culturali, responsabile delle operazioni di scavo, ricerca, catalogazione e conservazione dei reperti. Cardani Vergani ricorda che «grazie alla raccolta dati della Mappa archeologica del Cantone Ticino, lavoro iniziato a fine anni 90, oggi l’Ufficio dei beni culturali è in grado d’inserire nei Piani regolatori (Pr) i cosiddetti Perimetri d’interesse archeologico (Pia)». E come detto la zona del Palasio, con le sue 700 sepolture emerse dagli anni 60 fino a oggi, rientra notoriamente in una di queste aree d’interesse.
Materiali celtici dalla tomba 423 di Giubiasco
‘Potrebbero cambiare la storia di questa grande area sepolcrale’
Lo scavo tra il viale 1814 e via Ferriere è ancora in corso (si concluderà a fine dicembre) e sta riportando alla luce un numero considerevole di sepolture a inumazione e cremazioni singole. Se i corredi che accompagnano le oltre trenta tombe finora scavate sono ricchi e interessanti – indice quindi di una popolazione che le vie di transito hanno reso di ceto alto –, stando al Servizio archeologico la grande sorpresa sta nei quattro grandi tumuli presenti, “una prima assoluta per il Ticino”. Il tumulo rimanda infatti alle famose tombe etrusche, dove una struttura costruita ‘a collina’ racchiudeva sepolture di grande importanza. I tumuli giubiaschesi verranno aperti in sequenza nei prossimi giorni. La tomba principale lo sarà nel corso della presentazione alla stampa in agenda il 28 novembre: “Le aspettative al proposito sono grandi e, se confermate, cambieranno la storia di questa grande area sepolcrale”.
La brocca in bronzo a becco d’anatra trovata nove anni fa
Tornando in via Rompeda, in zona Palasio già nel 2013 era stata scoperta una necropoli, «dalla quale sono state riportate alla luce una trentina di sepolture a inumazione, caratterizzate da ricchi corredi perlopiù maschili da riferire all’Età del Ferro». Un’area nota fin dal 1906, «in quanto (seppur in modo sporadico) nelle vicinanze erano state rinvenute alcune sepolture», precisa Cardani Vergani. Le tombe di via Rompeda sono dunque legate alla Necropoli del Palasio, visto che sono state trovate a pochi metri di distanza da essa. Ricordiamo che uno degli oggetti di maggior pregio riportati alla luce nel 2013, è stata una brocca in bronzo a becco d’anatra: una rielaborazione dei Leponti – popolo stanziato nelle Alpi centrali che alcuni secoli a.C. era presente pure nella zona di Bellinzona, ad Arbedo e, appunto, Giubiasco – di un modello tipico etrusco per servire il vino nei simposi. La brocca è stata esposta una prima volta nella casa comunale di Giubiasco assieme ad altri oggetti ritrovati nella necropoli per alcuni mesi nel 2016; oggi è l’‘oggetto simbolo’ presso il Museo di Montebello.
Tomba 31 Castione Bergamo d’Arbedo
Zone archeologicamente sensibili
Se da un lato il ritrovamento di reperti antichi genera sempre stupore e curiosità, dall’altro può anche provocare alcuni malumori per le ditte che devono parzialmente rallentare il cantiere. Tuttavia, l’istituzione di zone archeologicamente sensibili genera trasparenza: in questo modo le società di costruzione sono a conoscenza che il cantiere potrebbe, molto probabilmente, subire alcuni ritardi, di cui quindi si tiene conto al momento della pianificazione dei lavori. «L’inserimento a Pr dei Pia fa sì che ogni intervento previsto nei terreni che vi fanno parte venga annunciato al Servizio archeologico cantonale, che ha il dovere di preavvisare la domanda di costruzione o la notifica», rileva Cardani Vergani. «Il preavviso (di regola favorevole con condizioni) indica un solo obbligo agli istanti, che in base alla Legge sui beni culturali, sono tenuti a preavvisare per tempo l’inizio dei lavori, in modo che dai primi movimenti di terreno il Servizio sia presente e controlli la possibile presenza di sostanza archeologica».
Dal ritrovamento allo studio, fino all’esposizione, passando dal restauro
Ma concretamente cosa succede quando viene accertata la presenza di reperti archeologici in un cantiere? «Lo scavo meccanico viene interrotto e gli archeologi iniziano il loro intervento manualmente; solo in questo modo infatti la sostanza antropica ancora presente nel terreno viene identificata, rilevata e documentata, così che se ne possa ricostruire l’evoluzione», sottolinea la caposervizio. «Lo scavo scientifico condotto da archeologici permette così di riportare alla luce strutture legate a insediamenti, fortificazioni, luoghi di culto, necropoli, per citare i ritrovamenti più comuni. Accanto ai reperti immobili, l’indagine riconsegna molto spesso grandi quantità di reperti mobili integri o in frammenti: corredi da sepolture, oggetti di uso quotidiano da insediamento, armi da luogo difensivo». Ovviamente il percorso di un reperto archeologico non si ferma dopo il ritrovamento a seguito di uno scavo: in un secondo tempo si procede infatti con «la conservazione, il restauro, lo studio, la valorizzazione e infine l’esposizione».
Tomba 108 Cerinasca d ‘Arbedo
Il Cantone possiede oltre quarantamila reperti mobili
Cardani Vergani precisa poi che «i reperti mobili diventano per legge di proprietà dello Stato, mentre quelli immobili (se non distrutti) rimangono ancorati al terreno e quindi sotto la responsabilità del suo proprietario». In generale in Ticino sono stati mappati «circa tremila siti archeologici» e il Cantone possiede «più di quarantamila reperti mobili». Di questi ne sono stati esposti «unicamente un migliaio. Una minima parte, se si considera la grande ricchezza della collezione archeologica: dai vetri romani (una delle maggiori collezioni a livello europeo), ai numerosi reperti in ceramica, ferro, bronzo, argento e oro, che dal Neolitico ci portano all’alto Medioevo, ai frammenti di dipinti murali del pieno Medioevo».
Collezione destinata a crescere ancora
Una collezione, quella di proprietà dello Stato del Cantone Ticino, che, visti i frequenti nuovi ritrovamenti archeologici, è «destinata a crescere negli anni. Una collezione che tutti auspichiamo sempre di più diventi appannaggio non solo degli specialisti», ma di tutta la popolazione. Articolo di Fabio Barenco tratto da “la regione.ch”
Archeologia Montebello – Il nuovo percorso espositivo all’interno del Castello di Montebello, Bellinzona
Dopo alcuni anni di interventi, svoltisi a tappe e seguiti dalla Sezione della logistica (Dipartimento delle finanze e dell’economia), e con un allestimento museale rinnovato a cura del Servizio archeologia, il Castello di Montebello ha riaperto al pubblico con un nuovo concetto espositivo, più innovativo e dal taglio divulgativo.
La nuova entrata al percorso espositivo “Archeologia Montebello”
Al Palazzetto – attraverso vecchi documenti, disegni, fotografie d’epoca e progetti architettonici – è presentata la storia del castello, dalla sua edificazione avvenuta alla fine del XIII secolo, passando attraverso gli ampi lavori di restauro e di ricostruzione del periodo 1902-1910, per giungere all’ultimo importante intervento architettonico risalente agli anni ’70 del secolo scorso.
La torre del castello ospita invece un’esposizione archeologica dove è presentata una selezione di rinvenimenti del territorio ticinese, con particolare attenzione alla regione del Bellinzonese e delle valli superiori. I reperti, tra cui alcuni pezzi rari e di pregio come ad esempio la brocca a becco d’anatra da Giubiasco-Palasio esposta all’entrata, invitano il visitatore alla scoperta di questo territorio attraverso elementi, legati alle risorse naturali e alla presenza umana, che lo caratterizzano fin dai tempi più remoti.
Brocca a becco d ‘anatra
La visita al mastio si sviluppa in verticale seguendo il filo del tempo in ordine cronologico, dal basso (il periodo più antico, il Mesolitico) verso l’alto (il periodo più recente, la Romanità). La sequenza – suddivisa in quattro piani espositivi, intercalati da tre piani evocativi – richiama le modalità della ricerca sul terreno, che riporta alla luce le testimonianze in base a una lettura stratigrafica: gli strati più profondi racchiudono gli elementi più antichi, quelli più superficiali i più recenti. In ogni piano la “Carta del tempo” ideata dall’Associazione Archeologica Ticinese e i relativi riferimenti cromatici ricordano al visitatore a quale epoca appartengono gli oggetti esposti e in quale contesto essi si inseriscono.
Estratto della “Carta del tempo” elaborata dall’Associazione Archeologica Ticinese
Una volta giunti al cosiddetto Belvedere, alcune vedute mostrano la morfologia attuale del territorio, mettendo l’accento sugli aspetti geografici.
Un altro percorso scende invece ai piani inferiori, dove si possono approfondire alcune tematiche: l’introduzione nelle nostre terre della prima forma di scrittura, avvenuta durante l’età del Ferro, e la sua diffusione, in epoca romana; l’abbigliamento, ossia come vestivano e si adornavano le nostre antenate e i nostri antenati; i riti funerari in uso nell’antichità.
Un approfondimento tematico dedicato all’introduzione della scrittura nelle nostre terre
Una guida in quattro lingue scaricabile su smartphone accompagna il visitatore lungo tutto il percorso espositivo.
L’uso di imprimere marchi sulle lame delle spade è attestato prevalentemente in Svizzera, da cui proviene la stragrande maggioranza dei ritrovamenti. Diversi marchi sono conosciuti anche in Germania meridionale, Ungheria e Slovenia, altrove si hanno testimonianze molto più sporadiche.
Anche se comunemente classificati come marchi di fabbrica, in realtà sembra che il loro significato fosse di carattere talismanico e apotropaico. Prevalentemente si trovano rappresentazioni di maschere umane inserite in una mezzaluna e cinghiali, rappresentati come di consuetudine nell’arte celta, con le setole del dorso irsute. In alcuni casi, tra le zampe del cinghiale sono collocate tre palline, forse a rappresentare, in modo stilizzato, un triskel, in altri casi, come ad esempio sul punzone della spada di Magenta, tra le zampe vi è un simbolo circolare, il quale potrebbe essere un simbolo solare. Il cinghiale era uno degli animali di culto per eccellenza tra i Celti, simboleggiava la forza, la virilità, la guerra e spesso lo si ritrova raffigurato sia su monete, spade e suppellettili vari. Le spade di Magenta, sono quindi un prodotto di artigianato celta, inconfondibile, attribuibile certamente agli Insubri, inoltre dimostrano l’esistenza di strettissimi contatti con l’altopiano elvetico, con i Leponti, da cui potrebbero anche provenire tramite gli scambi commerciali.
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Lama di spada con punzonatura raffigurante un cinghiale (ingrandito nel particolare) e fodero di spada con decorazione incisa raffigurante un triskel, da Magenta (Mi), 250-175 a.C.
Catena sistema di sospensura porta spada, in ferro, da Magenta (Mi), 250-175 a.C. Un esemplare del tutto simile è stato rinvenuto in una sepoltura con armi, datata anch’essa tra il 250-200 a.C. a Malnate (Va)
Raffigurazione di cinghiale, da una moneta coniata dalla tridù degli Osismii, celti stanziati in Gallia, nelle terre dell’attuale Bretagna. Si noti la similitudine con la raffigurazione sulla spada di Magenta.
Da persee.fr
MARCHI DELLE SPADE LA TENE AL MUSEO ARCHEOLOGICO DI MILANO
GLI ANELLI DA CAVIGLIA O CAVIGLIERE SONO UN ORNAMENTO TIPICAMENTE FEMMINILE DIFFUSO NEL TERRITORIO INSUBRE E IN QUELLO CELTICO TRANSALPINO SOPRATTUTTO CENTRO-ORIENTALE.
In primo piano cavigliere insubri-Castello Sforzesco Milano Museo Archeologico III sec a.CCavigliere Insubri -a sinistra-del museo archeologico di Milano – Castello Sforzesco Le cavigliere del museo archeologico esposte alla mostra ” le vie dell’ acqua di Mediolanum”
Tra numerosi materiali di ornamento tipici della cultura insubre e non solo , una categoria di ornamenti personali si distingue per qualità e quantità: si tratta delle cosiddette “CAVIGLIERE AD OVOLI”. I contesti confermano che questi elementi, la cui popolarità raggiunge l’apice nel mondo celtico nel III secolo d.C., erano di esclusivo appannaggio femminile.
A sinistra cavigliere Insubri . Museo A.Levi MilanoCavigliere ad ovuli Insubri dal museo di Arona
sopra: cavigliera lateniana -Museo Civico di Lodi
La diffusione disomogenea nel territori gallici fa presumere l’adozione selettiva di anelli da caviglia nel costume femminile solo da parte di alcune tribù, stanziate a macchia di leopardo” nelle aree della Moravia e delle limitrofe regioni dell’Europa centro- orientale, nella Champagne francese e, in Italia settentrionale, nel comprensorio Insubre, tra Sesia e Oglio.
Cavigliera ad ovuli dal territorio Orobico III sec a.C.-museo archeologico Bergano
Per lo studio del dettagli costruttivi e dei modi di indossare le cavigliere, talvolta abbinate anche ad analoghi bracciali sempre portati in coppia, la necropoli di Dormelletto, scavata e indagata con grande puntualità scientifica, è di grande importanza, poiché, a eccezione di essa, tutti gli anelli ad ovoli noti dal territorio insubre sono di provenienza sporadica o da collezione, e non se ne conoscono le precise circostanze di rinvenimento.
Cavigliere ad ovuli dal territorio elvetico. Da catalogo I Celti Bombiani
I resti di materia organica trovati aderenti ad alcuni esemplari di Dormelletto hanno permesso di ricostruire che gli anelli, muniti di un sistema di apertura a cerniera, venivano fissati anche con l’ausilio di cordicelle di lana e servivano a stringere calzari che si sviluppavano ad avvolgere la caviglia, assolvendo a una duplice funzione pratica e ornamentale.
Al centro donna insubre- museo archeologico di LeccoDonne celtiche dal gruppo storico ” Insubria Gaesata”Cavigliera ad ovuli in bronzo provenienza insubre III sec a.C. area milanese.
LINK:
lL COSTUME DEGLI ANELLI DA CAVIGLIA AD OVOLI CAVI IN ETÀ LATENIANA.
Rielaborazione da articolo originale di NICOLA BIANCA FABRY
Il mondo celtico è stato sempre attratto dai gioielli e dai monili.
L ‘uso degli anelli in coppia sul braccio o sulle caviglie caratterizza la parure femminile ha una origine antica nel mondo celtico Mentre altri tipi di gioielli quali il torquis (collare), l’armilla, il bracciale omerale e l’anello digitale rientrano anche nella sfera maschile, l’utilizzo di cavigliere appare invece solo esclusivamente nel mondo femminile.
Le cavigliere seguono una propria vera evoluzione tipologica un po’ come avviene per tutti gli oggetti di moda .
Nella fase piú antica LT B2 si riscontra l’introduzione di un tipo a serie di piccoli ovoli cavi (da 14 a 18 ovoli). La progressiva evoluzione tipologica è dimostrato da forme intermedie ibride, articolate da costolature massicce, con ovoli cavi( es c tomba 5 di Kuřim in Moravia e alcuni dell’Alta Baviera pubblicati da W. Krimer.)
Anelli da caviglia da Klettham -Baviera III sec a.C
Lo studioso R.Gephart , basandosi su reperti centroeuropei (provenienti da Moravia Boemia Baviera meridionale e Svizzera ) riconosce come indicatore cronologico proprio la riduzione del numero degli ovuli cavi.
Le cavigliere con più di 10 ovoli compaiono nella fase LT B2a.
Quelli con meno di 10 caratterizzano la fase LT B2b/ C la
I tipi con meno di 5 e quelli con 3 o 4 ovoll ipertrofici- detti forme tarde – sono presenti nel LT C1.
Tale fenomeno è presente anche sulle armille .Va specificato che sul numero degli ovoli cavi influisce anche la destinazione per cui un’armilla può presentare un numero minore di ovali rispetto a quelli presenti sulle cavigliere dello stesso contesto funerario.
Anelli da caviglia/cavigliere Insubri da Milano Bettola III sec a.C. Milano Civiche raccolte Archeologiche castello Sforzesco .foto da I Celti – Bompiani
La diffusione di questa moda nel mondo celtico ha probabilmente seguito due modalità.
Nel primo caso si assiste ad una moda importata senza l’arrivo di nuovi gruppi etnici. .
Nel secondo caso, si tratta della diffusione del costume attraverso migrazioni ed immigrazioni la mobilità degli individui. Nell’Italia del nord o nel caso emblematico del La Champagne studiato da V. Kruta, non si assiste soltanto all’arrivo di una nuova forma ornamentale ad anelli, ma prima di tutto ad un nuovo costume-l’utilizzo di anelli in coppia sulle caviglie che segnala i movimenti o la migrazione di gruppi allogeni.
Per quanto riguarda l’area italiana, gli anelli da caviglia ad ovoli cavi si possono dividere in
A) tipi d’importazione transalpina , con una particolare concentrazione a Marzabotto( che evidenzia legami con l’area boema-morava attorno alla metà del III secolo a.C).
B) tipo ibrido (s stipe Baratella ad Este) che nella distribuzione e decorazione plastica degli ovoli mostra elementi padani ad elementi transalpini
C) forme locali, distribuite prevalentemente nell’area transpadana occidentale, riferibile ai Galli Insubri. I due tipi (“Bettola” e “Lodi Vecchio”). rispetto agli esemplari transalpini, presentano la particolarità di utilizzare una notevole quantità di metallo e inoltre ovoli allungati e un “doppio ovolo”, normalmente diviso da due solcature verticali.
Questa tipologia “insubre” che non corrisponde alla sequenza evolutiva transalpina , conta 12 ovali nonostante faccia parte di contesti del LT C l
Nella necropoli di Dormelletto sembrerebbe possibile che l’utlizzo degli anelli da caviglia rifletta caratteri regionali. Le diversità di forma potrebbero essere espressione di una ulteriore articolazione sociale o locale .
Purtroppo, eccetto necropoli di Dormelletto e ritrovamenti sporadici, in Padania non sono documentati altri complessi funerari utili per un confronto preciso ad ampio raggio.
Gli anelli da caviglia ad ovoli cavi del tipo insubre hanno comunque similitudini in terre lontane: nell’area del Medio Reno / Mosella, Paesi Bassi, dove, ad esempio, nella tomba isolata di Koningsbosch, datata alla seconda metà del III secolo a.C., la coppia di anelli da caviglia presenta forma allungata e un maggior numero di ovoli cavi.
Cavigliere INSUBRI presso il museo di Lodi Vecchio.
ANELLI DA CAVIGLIA DEI GALLI BOI articolo di Heidi Geschwind
Cavigliere dei Boi diffusione in Cispadana e centroeuropa
Cavigliere a Marzabotto: Marzabotto (prov. Bologna/I) è uno dei siti archeologici più importanti per la ricerca sulla mobilità delle donne celtiche. Dal 19° secolo sono stati trovati e studiati sei ‘Hohlbuckelringe’ (cavigliere con emisferi cavi/anelli nodosi) non decorati. Questo tipo di gioielleria nasce nel medio periodo di La Tène nell’Europa centrale, dove alcune varianti si svilupparono in diverse regioni. Per gli studi sulle cavigliere di Marzabotto si può ipotizzare un’influenza celtica in LT B2 in Emilia -Romagna, che ha le sue origini nell’area della Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca. Per la prima volta a Marzabotto, i gioielli da donna La Tène sono al centro del dibattito sulla provenienza.
Montagna sacra di Wroczen a Pakoszowka nel sud est della Polonia . Qui gli archeologi hanno scoperto depositi votivi del III-II sec.a.C costituiti da vari oggetti tra cui le cavigliere ad ovuli cavi tipici delle parures della cultura di La Tene ( da archeologia Viva n 218 marzo 2023) Riva del Tisza(Ungheria), affluente del Danubio, scavi della necropoli di Sajopetri risalente alla prima migrazione celtica (prima metà III sec. a.C.): tomba a inumazione con cranio dislocato sul lato destro del corpo, accanto a costate di porco offerte al defunto e (sotto) sepoltura femminile con corredo ceramico ai piedi, due anelli da caviglia a ovoli e un braccialetto traforato con decorazione a traforo e a pastiglie (foto da archeologiaViva)
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L’APPARTENENZA ETINCA DEI CELTI CISALPINI ATTRAVERSO I GIOIELLI
Riassunto. I ritrovamenti di epoca celtica nel territorio dell’attuale provincia di Cremona, nella media valle del Po, sono piuttosto rari. Le informazioni sui vecchi ritrovamenti di cui disponiamo si limitano spesso a brevi e sommarie notizie edite sulle storie locali, prive delle riproduzioni graiche e fotograiche dei materiali rinvenuti, talvolta senza precisa collocazione topograica. A queste si sono aggiunte negli ultimi anni nuove scoperte : la tomba isolata di guerriero rinvenuta a Romanengo (seconda metà III secolo a.C.), e la piccola necropoli di Isengo (ine II-prima metà del I secolo a.C.), indagate con metodo stratigraico, consentono di accrescere le nostre conoscenze su un territorio considerato zona cuscinetto tra il mondo insubre e cenomane.
ROMANENGO -LA SPADA CELTICA ROMANENGO CORREDO CELTICO
Il ripostiglio fu scoperto a Rivolta d’Adda (CR) nell’aprile del 1975 nel corso di lavori edili per la realizzazione di un muretto, a circa mezzo metro di profondità. L’operaio addetto allo scavo, accortosi della presenza di un oggetto grossomodo sferico, temendo che fosse un residuo bellico, ruppe il contenitore ceramico rivelando la presenza di un ammasso confuso di piccoli oggetti metallici (fig. 1). Raccolto tutto, se lo portò a casa. La pulizia di uno dei pezzi rivelò la portata del rinvenimento1. Le modalità del tutto casuali di scoperta non consentono di sapere se il tesoretto mone- tale fosse stato occultato in prossimità di un abitato. Il ripostiglio, a seguito della dispersione di un numero imprecisato di pezzi, apparentemente non molto consistente, è attualmente composto da 115 dracme padane (tav. I).
Nella pubblicazione del complesso a opera di Ermanno Arslan2 si evidenzia la presenza di tre tipi diversi di dracme, indicati con il numero corrispondente della tipologia proposta dallo stesso Arslan3: XVI (87 esemplari, 75,65%), XVII (27 esemplari, 23,47%) e X (1 esemplare, 0,87%). Sulla base di questa composizione, l’Arslan ipotizza una formazione del ripostiglio fra terzo e quarto venticinquennio del II secolo a.C., arco cronologico che appare compatibile con la tipologia del contenitore, un vaso a trottola, mancante della bocca, inquadrabile nella fase finale del LTC2. L’attribuzione ipotetica dei tipi XVI e XVII, ovvero della quasi totalità del ripostiglio, alle popolazioni residenti fra Piemonte orientale e Lombardia occidentale induce a ipotizzare che il gruzzolo si sia formato in quest’area e che, per ragioni imprecisabili, sia poi stato trasportato più ad oriente dove probabilmente sarà stata aggiunta la dracma del tipo X, assegnata a zecca cenomane.
Allo stato attuale delle conoscenze appare pressoché impossibile comprendere le ragioni di questo spostamento, come pure dell’occultamento e del successivo mancato recupero del gruzzolo monetale. La possibile testimonianza della mobilità di persone da occidente a oriente risulta, comunque, interessante per comprendere le dinamiche del popolamento in Lombardia nella seconda metà del II secolo a.C. ( da Grazia Facchinetti)
Tratto dal depliant della mostra ” LEPONTI TRA MITO E REALTÀ”Locarno anno 2000
Particolare della testa del toro in cui si può osservare al cura nella resa dei dettagli Ticino, Giubiasco(?). Tomba 262 – IV sec. a.C
La riscoperta dell’importanza e dell’esatta localizzazione della popolazione alpina dei Leponti è un’acquisizione della moderna archeologia protostorica.
Scarse e brevi sono infatti le notizie le notizie delle fonti letterarie antiche greche e romane, e non anteriori alla metà circa del II sec. a.C. quando Catone il Censore, a proposito delle tribù dell’area alpina e subalpina, ci informa che «i Leponti e i Salassi sono di stirpe taurisca», notizia ripresa oltre due secoli dopo da Plinio il Vecchio. Quest’ultimo riferisce inoltre una curiosa interpretazione del nome dei Leponti basata su una falsa etimologia greca: questo popolo sarebbe stato così chiamato perché «discendente dai compagni di Ercole abbandonati li per aver avuto le membra congelate durante il passaggio delle Alpi» (in greco, infatti, il verbo ‘abbando- nare’ suona ‘leipein’). Plinio aggiunge poi che la popolazione «leponzia» degli Uberi è stanziata presso le sorgenti del Rodano.
Da Strabone e da Giulio Cesare (I sec. a.C.) si desume infine qualche indizio sulla nozione dell’ampiezza in senso sud-nord del territorio dei Leponti. Il primo afferma che al di sopra di Como, posta alla base delle Alpi, abitano da un lato Reti e Vennoni, rivolti ad oriente, dall’altro Leponti, Tridentini e gli Stoni, e un gran numero di popoli che occupavano un tempo l’Italia», mentre il secondo osserva che il Reno nasce nel paese dei Leponti che abitano sulle Alpi.
La documentazione archeologica ha dimostrato come i Leponti facessero parte di un più ampio raggruppamento culturale, denominato civiltà di Golasecca, comprendente anche altre popolazioni, come quelle stanziate nella regione di Milano (Insubri) e fra Como e Bergamo (Orobi). Esse svolsero un ruolo importantissimo di intermediari negli scambi commerciali dal VII agli inizi del IV secolo a.C. tra Etruschi e Celti transalpini. Le invasioni galliche del 338 a.C. posero fine a questi fiorenti commerci tra mondo mediterraneo ed Europa centrale.
I Leponti, popolazione alpina della civiltà di Golasecca, continuarono a mante nere a lungo le proprie tradizioni culturali, ma ben presto subirono dapprima l’influenza della nuova civiltà di La Tène, introdotta nella pianura padana dai Celti (Galli) invasori, e in seguito quella romana di età tardo repubblicana.
Territorio dei Leponti e degli altri popoli della civiltà di Golasecca
Nonostante le profonde trasformazioni determinate da questi processi di acculturazione, ancora in età romana imperiale si manifestano nella regione dei Leponti tratti peculiari e autonomi.
I TRAFFICI ED IL COMMERCIO
Nelle civiltà antiche il vasellame metallico rappresentò sempre un prodotto di lusso utilizzato dalle classi sociali superiori: nei servizi per bere durante fe ste e banchetti; durante riti; come og getto di corredo nelle tombe più ricche. Lo studio analitico dei corredi funerari con vasellame bronzeo di importazio ne etrusca ha evidenziato che esso ve niva apparentemente deposto quasi esclusivamente nelle tombe di uomini. Un sicuro caso di corredo femminile con una Schnabelkanne è quello della tomba 1 di Pazzallo presso Lugano.”
Nell’ambito della cultura di Golasecca tra VIII e IV sec. a.C. si conoscono almeno duecentocinquanta vasi di metallo. La documentazione archeologica proviene per quattro quinti dalle necropoli di sole quattro aree: dintorni di Como, Golasecca, dintorni di Bellinzona, Castaneda, con un graduale spostamento nella frequenza dei rinvenimenti dall’area lombarda (VIII-VI sec.a.C.) a quella leponzia (a partire dal V sec. a.C. e, in modo quasi esclusivo, per tutto il IV), per motivi in parte dovuti all’effettivo declino di alcuni centri (comprensorio di Golasecca), in parte alle lacune della ricerca (dintorni di Como), in parte ai mutamenti intervenuti nel 388 a.C. con le invasioni galliche della pianura padana. 20% circa del vasellame bronzeo rinvenuto nel territorio della cultura di Golasecca è importato dall’Etruria. Si tratta di recipienti che nel mondo mediterraneo fanno parte del servizio per la preparazione e la consumazione del vino durante il simposio: sono attesta te soprattutto Schnabelkannen (brocche a becco per mescere), ma anche situle stamnoidi (contenitori per liquidi), kyathoi (piccole brocchette per at tingere), colini e bacili.
Nell’ambito della cultura di Golasecca e localizzabile uno dei più importanti centri di fabbricazione di vasi in lamina bronzea della prima età del Ferro: qui, tra Vill e IV sec. a.C., si conoscono almeno 250 recipienti metallici. Ad eccezione di un discreto nucleo che risulta importato dall’Etruria, essi appartengono nella grande maggioranza (80% circa) a produzioni di officine locali atti ve tra l’inizio del VII e il IV sec. a.C. localizzabili dapprima nei pressi di Gola secca e di Como e quindi anche nei dintorni di Bellinzona. Alcuni di questi prodotti, come le ciste a cordoni di tipo ticinese e le situle di tipo renano-ticine se, venivano anche esportati oltralpe. nell’ambito dei commerci tra mondo mediterraneo e mondo celtico transalpino che seguivano una rotta principale attraverso i valichi controllati dalle genti della cultura di Golasecca.
L ‘AMBRA
L’ambra è una resina fossile, secreta da conifere vissute per lo più nel Terziario (più di cinquanta milioni di anni fa) e oggi estinte. Essa si rinviene principalmente in giacimenti che formavano un tempo il fondale di lagune o foci fluviali: rami e tronchi caduti fluitati con la corrente dei fiumi verso il mare sono stati in tempi lunghissimi ricoperti dai sedimenti e la loro resina si è trasformata in ambra. I giacimenti d’ambra terziaria nel mondo non sono molto numerosi. In Europa se ne contano soltanto tre: in Sicilia, presso Catania; nei Carpazi rumeni; e il vastissimo deposito sulle rive del Mar Baltico.
Tazza in legno usata per attingere .
Grazie al sofisticato metodo di analisi della spettroscopia di assorbimento dell’infrarosso è possibile riconoscere la composizione dell’ambra, che è caratteristica per ogni singolo giacimento, e determinarne cosi la provenienza. L’ambra dei Leponti, esclusivamente di origine baltica, è testimoniata da più di tremilacinquecento oggetti per un pe so complessivo di circa 6,5 kg (grandi perle infilate in orecchini a forma di staffa o a cerchio; elementi decorativi dell’arco di fibule; vaghi di collane; se paratori di collane; pendagli) che ne fanno forse il maggior complesso noto di ambre preistoriche. L’enorme quantità di ambra presente in territorio leponzio, soprattutto tra VI e IV sec. a.C. testimonia una volta di più l’importante ruolo di passaggio di flussi commerciali svolto da questa regione e pone il problema, attualmente in corso di studio, di comprendere se essa vi sia giunta come merce di scambio diretta mente dalle regioni transalpine o dal Caput Adriae attraverso la via padana.
L’ABBIGLIAMENTO
Come si vestivano uomini e le donne nel Ticino-Insubria della prima e seconda etá del Ferro.
Particolare delle parure di una donna del popolo dei Leponti ( ricostruzione da tomba di Giubiasco 300 a.C.) Zurigo Museo Nazionale SvizzeroParticolare delle parure di una donna del popolo dei Leponti ( ricostruzione da tomba di Giubiasco 300 a.C.)
Nell VI -V secolo a.C. le donne indossavano un abito fissato sulle spalle da fibule, sotto quale veniva portata una tunica . In vita portavano cinture chiuse con placche di lamina bronzea di forma foliata o con fermagli quadrangolari . Indossavano, inoltre, orecchini con perle d’ambra, collari in bronzo, bracciali collane con vaghi d’ambra e di vetro ed anche con pendagli o bronzo.
ABBIGLIAMENTO MASCHILE
L’abbigliamento maschile doveva essere più sobrio; gli uomini utilizzavano fibule ad arco serpeggiante, più raramente e solo nelle fasi piú antiche spl loni, sia di ferro che di bronzo, e ferma in ferro, Al fianco è probabile che portassero un coltello, sempre di ferro. Nella seconda meta del V secolo si introducono anche presso i Leponti ele menti caratteristici della civita celtica di La Tene, dapprima nel costume maschile e gradualmente in quello femminile , che rimane più a lungo legato alla tradizione golasecchiana, come per esempio ganci a traforo in bronzo e in ferro Le fibule La Tene sostituiscono poco a poco i tipi precedenti che dalla metà del III secolo scompaiono definitivamente .
La descrizione dell’ abbigliamento maschile delle popolazioni celtiche da parte delle fonti classiche, potrebbe almeno in parte valere anche ser popolazioni lepontiche del Ticino durante la seconda eta del Ferro: -vestono con abiti stravaganti dele tuniche colorate dove si mescolano tutti i colori e dei pantaloni che chiamano braghe. Vi agganciano sopra de saii rigati di stoffa, a pelo lungo d’inverno e liscia d’estate, a fitti quadrettini di tutte le gradazioni (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 28-30), cosí come il gusto, definito smodato per gli ornamenti: portano dei gioielli d’oro, catene intorno al collo, anelli attorno alle braccia e ai polsi (Strabone Geograha, N. 4, 51 )Al fianco era sospesa una lunga spada, che poteva avere ina impugnatura e puntale decorati con in crestazioni di smalto o corallo.
LE ARMI
I Rinvenimenti di armi nella quasi totalita da corredi funerari, indicano con chiarezza che i Leponti non svilupparono un armamento originale, ma si ispirarono all’equipaggiamento di altre popolazioni, in parte utilizzando elementi importati in parte producendone imitazioni.
Durante la prima eta del Ferro nell ‘area della cultura di Golasecca, dove le armi si rinvengono solo nelle più ricche tombe dell’elite guerriera, si rivela un complesso intreccio di influssi dalle regioni in transalpine nord-occidentali e dal mondo etrusco e piceno.
Verso la meta del VI sec. viene rielaborato localmente a partire da un modello i del Piceno un tipo di elmo a calotte con borchie e gola, documentato da pochi esemplari . Particolare importanza assume nel V sec. l ‘ elmo tipo Negau caratteristico elemento dell armamento da difesa etrusco: in ambito golasecchiano ne sono testimoniali sia esemplari importati sia imitazioni locali.
Molto precocemente avverte anche influsso della nuova cultura La Tene, le cua tipiche lunghe spade in ferro con fodero con puntale trilobato compaiono in Canton Ticino nella seconda meta del V secolo a.C. Appartengono a questa tradizione anche elmi in ferro anziche in bronzo come era invece di uso comune nel mondo mediterraneo . Nel corso del III- II sec. a.C. il numero delle tombe di guerriero cresce vertiginosamente nelle necropoli leponzie sia in Ticino che nella Val d’Ossola . Durante il I secolo a.C. si fa evidente l’influsso dell’equipaggiamento de legionari romani nella spada corta e dotata di fodero in legno con bande metalliche, simile al gladius, e in esemplari isolati di pugnali ed elmi
Dopo L annessione del territorio leponzio all’impero romano cessa definitivamente l’uso di deporre armi nelle tombe.
LA LINGUA E L’ALFABETO
Nel 1817 fu ritrovata a Davesco una stele funeraria con due figure antropo- morfe che racchiudevano un’iscrizione ciascuna in un alfabeto ancora scono sciuto. Da allora sono state scoperte altre iscrizioni simili su pietra, una doz- zina nel Sottoceneri ed altre ancora nella zona di Como, a Vergiate, e in alcune località della provincia di Novara. Brevi iscrizioni graffite un alfabeto molto simile si notarono anche tra le ceramiche che si scoprivano nelle necropoli della zona di Como e, più numerose, in quelle di Ornavasso, di Solduno, di Giubiasco, e nell’abitato protostorico dei dintorni di Como.
Oggi possediamo un patrimonio relati vamente ampio di iscrizioni riferibili al territorio delle popolazioni della civiltà di Golasecca (Leponti, Orobi e Insubri), databili da fine Vil-inizi VI sec, a.C. al Bronzo. I sec. a.C. e che permettono di rico- struire le vicende linguistiche preromane di quest’area.
L’alfabeto in cui sono redatte fu deno- minato nordetrusco nel 1853 da Theo dor Mommsen e di Lugano- (termine utilizzato ancor oggi) da Carl Pauli nel 1885. Inoltre, il Pauli defini leponzio.
la lingua di queste iscrizioni, afferman done l’appartenenza alla famiglia delle lingue celtiche, fatto che venne defini tivamente dimostrato solo nel 1971 da Michel Lejeune.
Nell’alfabeto leponzio, si riconosce oggi un’evoluzione in due fasi: la più antica è databile al VI, V e parte del IV sec. a.C., la più recente dalla fine del IV fino a tutto il I sec. a.C. L’accertamento della datazione delle prime iscrizioni le ponzie al VI e al V sec. a.C. è di notevole importanza poiché dimostra che nell’area della cultura di Golasecca era parlata una lingua celtica ben prima delle invasioni galliche dell’Italia setten trionale (388 a.C.) e quindi che la celticità delle popolazioni di tale area si è formata in un’epoca molto antica, risalendo probabilmente fino all’età del bronzo.
Le iscrizioni leponzie appartengono, allo stato attuale delle conoscenze, a poche categorie: dediche votive; epitaffi sepolcrali su stele di pietra; marchi di proprietà graffiti sulle ceramiche; legende monetali; cui si aggiunge un caso isolato di serie alfabetica parziale.
LA MONETAZIONE
La moneta appare pressoché assente nell’area leponzia fino al II- inizi del Isec. a.C. quando, in tutto l’attuale Cantone Ticino, sono attestate numerosissime monete celtico-padane, sia in ripostigli che in corredi funerari, mentre risulta assente la moneta romana medio e tardo-repubblicana.
Celti. Gallia Cisalpina, Leponzi. Dracma, imitazione del tipo massaliota, II sec. a.C. D/ Testa di Artemide a destra. R/ Toutiopouos in caratteri leponzi e , leone stilizzato gradiente a destra. Cf. Pautasso, Pl. LIII, 273 ff. AG. g. 2.06 mm. 16.00 RR. SPL.
Tale territorio per il quale si possono escludere emissioni locali-era quindi estraneo alle correnti di traffico che impiegavano moneta romana e importava unicamente moneta argentea padana, utilizzandola sporadicamente in tomba o raccogliendola in complessi forse di natura votiva e creati da un accumulo di singole offerte protrattosi nel tempo. Simili modalità di formazione, a carattere rituale e votivo e non economico né di tesaurizzazione, possono spiegare sia la coesistenza di monete emes se anche a distanza di molti decenni che non possono aver circolato insieme, sia la selezione degli esemplari con l’esclusione della moneta romana. L’area si sarebbe quindi mantenuta a lungo in una cultura premonetaria, nella quale il circolante, proveniente tutto dalle zecche celtiche della pianura padana, non supportava ancora forme di economia avanzata, alla quale invece avevano ormai accesso le popolazioni oltre il confine. Nel territorio del Basso Toce, invece, dove erano stanziate gen ti pagate dai Romani per proteggere i confini, le monete sono quasi tutte ro mane, con pochi esemplari celtico-padani.
E forse solo nel sec. a.C., a ridosso delle guerre alpine di Augusto e quindi dell’integrazione nel territorio controllato direttamente da Roma, che tra i Leponti penetra una prima cultura monetaria, con una spiccata preferenza per le ultime emissioni insubri, con legenda rikoi, che vengono ritrovate anche isolate.
Analoga cultura monetaria, non sappiamo però se più legata alla pratica della deposizione votiva o alla funzione commerciale, si sviluppava nello stesso periodo nel Vallese, tra Veragri, dove però si giunse a coniazioni locali di imitazione.
Dopo l’annessione del territorio leponzio tra il 24 e il 15 a.C., come per le altre valli -pacificate dalle armi romane, l’integrazione nella cultura italico-romana avvenne in termini accelerati, certo favorita dalla riapertura dei traffici attraverso i passi alpini, con la riattivazione sicura di molti percorsi prima controllati dalle popolazioni alpine. Il territorio dell’attuale Canton Ticino entrò allora nella cultura monetaria della pianura, come dimostrano gli scavi di Muralto-Park Hotel, dove la monetazione augustea è molto ben rappresentata ed è invece assente la moneta celtico-padana.
Il contatto fra la popolazione lepontica ed i Romani avviene in modo graduale a seguito dell’espansione romana nella pianura padana nel Il secolo a.C. In questo periodo è presumibile che anche i Leponti siano stati indirettamente o di rettamente in contatto con i Romani impegnati negli scontri con gli Insubri ei Comensi. D’altro canto contatti commerciali e culturali con gruppi stanziati nella pianura padana, che vengono progressivamente integrati nel sistema amministrativo ed economico romano, proseguono senza interruzione anche nel Il e nel I secolo a.C.
Vetri di epoca romana dal territorio dei Leponti
Nella seconda metà del I secolo a.C. nel corredi tombali del Cantone Ticino si nota una maggiore presenza di materiali di tipo romano (ceramiche, bronzi, monete) che rivelano l’intensificarsi dei rapporti. Le tappe più importanti di questo processo sono: nel 59 a.C.la fondazione da parte di Cesare di una colonia di veterani a Como (Novum Comum); – nel 42 a.C. l’unione giuridica e amministrativa della Cisalpina al resto dell’Italia;
dal 35 al 15 a.C. le campagne militari di Augusto, volte a sottomettere le popolazioni alpine per assicurare, fra l’altro, i transiti commerciali e mi litari attraverso le Alpi.
Anche parte dei territori dell’odierno Cantone Ticino vengono integrati nella Regio XI Transpadana; in base alle po che testimonianze epigrafiche si può desumere che il Sottoceneri è assegnato amministrativamente al municipio di Como, il Locarnese verosimilmente a quello di Milano, mentre i territori più settentrionali fanno parte del la provincia della Rezia.
In Ticino sono molto scarse le tracce di abitati della fine del I secolo a.C.: in questo periodo viene fondato il villaggio (vicus) di Muralto, che funge da testa di ponte dei commerci provenienti dalla pianura padana tramite la via d’acqua Po’ Ticino Verbano e diretti a nord; Muralto diviene così il centro d’irradiazione della cultura romana nella regione. Sulla collina di Castel Grande a Bellinzona doveva esistere probabilmente una postazione di guardia, mentre villaggi sparsi nel Sottoceneri sono finora sconosciuti.
LA ROMANITÀ SI AFFERMA
A partire dagli inizi del I secolo d.C. l’in flusso della cultura romana diventa predominante nei modi di vita e nei costumi della popolazione lepotica.
Il processo di trasformazione, testimoniato soprattutto dagli oggetti che vengono deposti nelle tombe come corredo funerario, si afferma però in modo più lento nelle valli alpine rispetto alla pianura lombarda; all’interno del terri torio ticinese si nota inoltre che gli influssi esterni vengono adottati più velocemente e in modo più completo nei piccoli centri, come a Muralto, rispetto alla periferia e alle valli.
Nelle necropoli legate vicus di Muralto i ceti più alti della popolazione, rappresentati dalle famiglie che erano state a capo delle comunità celtiche dell’età del Ferro, ostentano la propria ricchezza e la propria posizione di potere locale tramite la costruzione di tombe a camera (a inumazione) con piccoli monumenti funerari di tipo ro mano e corredi particolarmente ricchi. La cremazione, diffusa nel Sottoceneri, più direttamente in contatto con il centro di Como, è invece molto limita ta nelle necropoli del Sopraceneri, a riprova del perdurare anche in epoca romana di differenziazioni locali già presenti durante l’età del Ferro.
Gli insediamenti noti nel Sottoceneri sono rappresentati da resti di ville rurali, a cui dovevano essere legati appezzamenti non molto estesi di terreno coltivabile, e gravitavano nella sfera di influenza di Como; pure attestata è la pesca, come a Melano. A Bioggio é stato rinvenuto l’unico tempio di tipo romano di tutto il territorio cantonale, da tato al Il secolo d.C.. un piccolo edifi cio su podio, dedicato a Giove, come indica l’iscrizione sull’ara ivi rinvenuta. La piccola necropoli di Roveredo, nella valle Mesolcina, presenta gli elementi della Romanità peculiari del Soprace neri, dove nel I secolo d.C. persistono elementi di tradizione lepontica sia nel l’abbigliamento che nel rito funerario accanto ad importazioni di gusto romano,
Quando parliamo dei popoli antichi che hanno abitato la regione Padana ed Alpina ,quella che sarà chiamata poi dai Romani Gallia Cisalpina , dobbiamo ovviamente pensare ad un vero e proprio mosaico di tante diverse popolazioni . Ad esempio, parlando dei Galli essi erano diversamente cugini tra loro . Insubri e Cenomani avevano avuto una diversa etnogenesi solo per fare un esempio.. Altri popoli Celti, i Boi e soprattutto i Senoni erano fortemente fuse con le popolazioni etrusche ed umbre tanto da creare una koinè celto- italica.
Nel Piemonte e sugli Appennini la commistione con Liguri fu ancora più forte. Altre popolazioni come i Camuni e i Triumphilini erano definiti come Euganei e seppur molto affini ai Reti avevamo assorbito anche molti elementi etruschi, celtici e venetici. I Reti sulle Alpi, affini ai Tirreni per lingua, avevano anche loro assorbito molti elementi celtici e venetici così come i Veneti ,affini a loro volta linguisticamente ai Latini. Nel video che qui segue il vicedirettore del Gruppo Archeologico Comasco ci descrive appunto questo complesso mosaico di popoli e nazioni. Buona visione .
Da “L’armamento: dal guerriero celtico al legionario romano” di Massimiliano Di Fazio
Guerriero Celta II sec a. C.
In questo contributo si cerca principalmente di mettere a fuoco i problemi che si incontrano nell’affrontare lo studio dell’armamento degli Insubri e dei popoli loro confinanti occidentali, i Levi della Lomellina e i Vertamocori del Novarese, nella fase della “romanizzazione” (fine del II e inizio del I sec. a. C.); vengono altresì ribaditi alcuni punti fermi già prospettati dalle ricerche recenti e se ne offrono di nuovi al dibattito scientifico. La ricerca prende in esame tre ambiti documentari: quello letterario, quello iconografico e quello archeologico. Presentiamo qui solo brevi cenni ai primi due ambiti, per concentrare l’attenzione sul piano più propriamente archeologico.
Fonti letterarie
La maggior parte dei riferimenti alla sfera bellica riguarda i Celti di IV secolo, che tanta impressione destarono nel mondo romano1. Ma non si può essere certi che gli elementi desumibili da queste descrizioni siano validi anche per situazioni lontane nello spazio e nel tempo, e che i Galli che misero a ferro e fuoco Roma agli inizi del IV secolo avessero usi bellici analoghi agli Insubri dei secoli II e I. Dare per scontata questa analogia equivarrebbe a sottrarre ai Celti la dimensione del cambiamento, a negare che essi potessero adattarsi nel corso del tempo ai diversi nemici, alle diverse situazioni ambientali, anche al progresso tecnologico: cosa che nessuno sarebbe disposto ad ammettere per l’esercito romano. Stesso discorso vale per la diversità delle aree culturali: le notizie che Cesare fornisce a proposito dei Galli transalpini, in che misura possono essere utili per una indagine sul mondo insubre? Non dimentichiamo, inoltre, che le stesse fonti autorizzano a cercare le distinzioni nell’ambito della “galassia” celtica, quantomeno a livello di armamento, quando ad esempio ricordano le caratteristiche dei Gesati2, usi ad andare in combattimento pressoché nudi e per di più con la lancia come arma principale, laddove il guerriero celtico ha di solito nella spada la sua arma di riferimento3 e sembra disporre anche di corazze di particolare valore4.
Evoluzione dello scudo celtico. Dal catalogo mostra “I Celti” palazzo Grassi
A questi temi si aggiunge quello più “classico” e tradizionale. È ben noto infatti che le fonti greche e romane tendono, in linea di massima, a dare del barbaro (e il Celta non fa eccezione) una visione che accentua gli aspetti meno raffinati5. In particolare, per i Celti un vero e proprio leit-motiv è quello che ne fa guerrieri temibili al primo impatto, coraggiosi, sprezzanti del pericolo e della morte, ma incapaci di strategia, di organizzazione, e pertanto destinati a soccombere di fronte ad un nemico organizzato. Questo stereotipo, più volte criticamente analizzato6, potrebbe sollevare ulteriori eccezioni rispetto a quelle già individuate. Tanto per limitarci ad un esempio, ricordiamo che uno degli aspetti del modo di combattere celtico che più colpisce le fonti è quello dell’impatto emotivo, visivo ed acustico che l’orda di guerrieri produceva sul nemico, sia per l’aspetto selvaggio, sia per il caos (apparente?) con cui si lanciavano in battaglia, sia per il frastuono di grida e suoni con cui atterrivano il nemico.
Spada gallica( necropoli S.Maria di Zebio ) dei CENOMANI disegno e ricostruzioneparticolare della spada dei Galli Cenomani della necropoli di S.Maria di Zebio -Verona
È stato però osservato che, per un manipolo non schierato che scende in campo puntando proprio sulla mobilità e sulla rapidità di spostamento, avere immediati riferimenti visivi ed acustici è essenziale per mantenere l’unità del gruppo e per ricevere e trasmettere ordini e in maniera efficace7. Non è da escludere, pertanto, che ciò che agli occhi romani appariva come un barbaro modo per spaventare gli avversari, non fosse invece una forma di organizzazione tattica. Ad ogni modo, le fonti letterarie permettono di fissare alcuni punti in un quadro non sempre stabile. Da un punto di vista politico-militare i testi restituiscono l’impressione di una solida egemonia insubre nell’area transpadana, egemonia che traspare da alcuni dati. Vi è innanzitutto una matura organizzazione politica interna, indicata dalla capacità di far assurgere un tempio del proprio maggiore insediamento, Milano, al ruolo di santuario federale perché vi erano conservate le “insegne inamovibili”8, che venivano prelevate solo in occasione di scontri con realtà esterne. Questo aspetto sembra suggerire la raggiunta capacità da parte degli Insubri di costituire ed egemonizzare una lega politico-militare, presupposto di un possibile sforzo militare sinergico9. Altro punto interessante è la capacità di stabilire e mantenere contatti a largo raggio, “internazionali”.
Frontone di Civitanova presso Sentino. Guerrieri celtici che stavano razziando un tempio , fuggono terrorizzati all’ apparizione della divinità .
Frontone di Civitalba
L’esistenza di questi contatti è testimoniata sia dall’arruolamento di truppe mercenarie, come nel caso dei Gesati della valle del Rodano, cosa che indicherebbe una notevole disponibilità di risorse10, sia dal probabile accordo con Annibale già prima della sua discesa dalle Alpi; sono gli Insubri, infatti, che destabilizzano l’area padana, inducendo i Boi ad affrontare con loro i Romani e che creano una situazione di non ostilità all’ingresso punico, costituendo fin dall’inizio per Annibale un alleato privilegiato, tanto che la ribellione di un popolo terzo verso di loro viene considerato dal generale cartaginese – come dagli storici posteriori – un segno di ostilità verso gli stessi Cartaginesi11. Sul piano più strettamente oplologico, è stato da tempo riconosciuto che le osservazioni più interessanti sono contenute nell’opera di Polibio, che per formazione personale aveva un occhio “tecnico”, come dimostrano alcune annotazioni specifiche (12). In particolare, è ben noto il passo in cui lo storico ricorda le caratteristiche della spada celtica: lunga, a doppio fendente e realizzata in ferro non temprato, per cui si piegava facilmente. Questa spada era temibile al primo colpo, ed era proprio all’impatto iniziale che i guerrieri celtici affidavano la loro efficacia. Tale caratteristica fisica sembra essere confermata dalle analisi sulle spade lateniane (anche) di area insubre13. Ma anche in questo caso, il livello di guardia deve essere tenuto alto. E’ stato infatti notato che i caratteri che Polibio attribuisce alle spade celtiche sono gli stessi che la tradizione storiografica riconosce ai Celti: grandi, capaci di incutere timore, ma poco resistenti per costituzione, e dunque propensi a piegarsi quando avessero trovato resistenza14. Si deve tener presente che
sulla effettiva debolezza del metallo delle spade celtiche non vi è unanimità(15). Per cui, anche alcuni dettagli della sfera bellica potrebbero essere leggermente alterati nelle fonti sulla scorta di quel “pregiudizio morale” che ben conosciamo. Anche le altre fonti antiche, che ci forniscono preziose informazioni16, andranno misurate con questi argomenti e di volta in volta strettamente confrontate con la realtà della cultura materiale. Fonti iconografiche Dal punto di vista iconografico, la cultura etrusco-padana nel corso del V e IV secolo offre più volte la rappresentazione del guerriero celta. Le raffigurazioni sulla ceramica, sulle stele felsinee ed anche sulla monetazione di età ellenistica mettono a disposizione dello studioso un interessante repertorio iconografico in cui è proprio il soldato celta ad essere rappresentato, a volte anche in maniera dettagliata(17).
Per quanto riguarda l’area insubre alle soglie della romanizzazione, le raffigurazioni sono invece pressoché inesistenti. Tuttavia è possibile ricavare qualche informazione quando si procede a vagliare accuratamente la documentazione. Un esempio è dato dagli affreschi del noto Ipogeo Arieti di Roma, che mostrano alcune figure di armati (fig. 1)18.
Dopo anni di dibattito, i guerrieri sono stati riconosciuti come Celti e di recente si è anche proposto di individuare la battaglia rappresentata negli affreschi con quella di Talamone, in cui i Romani affrontarono proprio una coalizione di Insubri e Boi(19). È interessante notare che, pur nella resa relativamente corsiva delle figure, alcuni dettagli appaiono raffigurati in maniera realistica: dal nostro punto di vista spicca la grossa spada lateniana, col relativo fodero correttamente posto sul fianco destro del guerriero(20), ma non meno il caratteristico umbone ad alette trapezoidali che rinforza la parte centrale dello scudo e che trova (significativamente) precisi riscontri anche in esemplari appartenenti a corredi tombali della Cisalpina centrale della fine del II sec. a. C (come a Garlasco, Barzio, Oleggio, Vinzaglio)21. È poi interessante notare che anche in aree che hanno conosciuto una celticità autentica può affiorare una rappresentazione iconografica stilizzata e modellata su stereotipi, come è evidente nella raffigurazione “romantica” del guerriero celta a cavallo, a torso nudo e capelli al vento, spada nella mano destra e fodero a sinistra della lucerna di età augustea rinvenuta a Valeggio in Lomellina (fig. 2)22………..
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SITULA DI BRONZO CON BARBARI ( GALLI ) COMBATTENTI.
Situla con barbari ( Galli) combattenti Ercolano. Bronzo, h 33 cm , diam. orlo 40 cm MANN, Inv. 73146. II – I secolo a.C.
Proprio in questi giorni si può visitare a Bologna al museo archeologico la mostra ” I pittori di Pompei”. Tra le meravigliose pitture provenienti da Pompei e dal territorio , si trova esposta la situla di bronzo con Barbari combattenti. Si tratta innanzitutto di guerrieri Celti riconoscibili dal torques e dal tipo di scudo. Interessante è la posizione dello scudo che poteva essere utilizzato non solo per la difesa ma come in questo caso orizzontalmente in posizione di attacco. La situla è del II -I secolo a.C quindi potrebbe anche raffigurate proprio guerrieri celtici della Cisalpina.
Un esempio di uso offensivo dello scudo ( da Gallica Parma)
Mergozzo è considerato la porta della Val D’Ossola . Abitato dai Leponzi ha poi seguito le vicende della romanizzazione della ‘arco alpino
Il museo antiquarium
Una piccola mostra di materiale archeologico del territorio di Mergozzo, allestita nell’estate del 1969, fu motivo di incontro per un gruppo di appassionati delle più antiche testimonianze storiche del paese. Si costituì così, sotto forma di comitato, il Gruppo Archeologico di Mergozzo (G.A.M.) che, nell’antica Casa del Predicatore concessa dalla Parrocchia, cominciò a raccogliere in custodia conservativa il materiale archeologico che fu possibile reperire presso vari privati che ne erano in possesso o emerso dagli scavi condotti negli anni a Mergozzo ed in altre località provinciali. Divenuta inadeguata la sede originaria, grazie all’intervento del Comune di Mergozzo e della Regione Piemonte, con il coordinamento della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte, a partire dal 2003 i materiali sono stati trasferiti in una nuova e più moderna sede, rispondente agli attuali criteri di sicurezza ed accessibilità, inaugurata nel settembre 2004.
Descrizione del materiale esposto: Il museo è articolato in due sezioni, una dedicata alla tradizione della lavorazione della pietra, una a carattere archeologico. Al primo piano la sezione “della pietra” ospita strumenti ed attrezzi del lavoro tradizionale dei cavatori e degli scalpellini che coltivarono le cave di granito di Montorfano e di marmo di Candoglia; accanto agli attrezzi sono esposti alcuni manufatti in pietra da contesti archeologici: epigrafi preromane e romane, opere medievali dal sito di Montorfano. Tra le testimonianze “di pietra” si segnalano quattro grandi steli funeriarie in pietra da Brisino (Stresa) che conservano i nomi dei defunti trascritti nel locale alfabeto leponzio (I secolo a.C.). Al secondo piano il percorso si articola in due sale, proponendo reperti archeologici ordinati secondo criteri cronologici. I reperti più antichi risalgono alla fine dell’età della pietra ed all’età del bronzo: si tratta per lo più di industria litica proveniente da Mergozzo, accanto al famoso pugnale in bronzo dell’Arbola e a materiali da altre località (Baceno, Cireggio, Grassona di Cesara). I reperti archeologici individuati sui terrazzamenti sovrastanti Mergozzo ed il lago dimostrano come l’uomo si sia insediato in queste zone almeno 5000 anni or sono. I ritrovamenti costituiti per la maggior parte da attrezzi in selce e frammenti ceramici risalenti ad un periodo comprendente il III ed il II millennio a. C. fanno pensare a capanne di legno e paglia, per un esiguo numero di abitatori dediti alla caccia, alla pesca e successivamente ad un’arcaica forma di agricoltura.
Tra questi materiali si segnalano per l’interesse documentario le asce da combattimento in pietra da Baceno e da Mergozzo risalenti al terzo millennio avanti Cristo. La tarda età del ferro è invece rappresentata dai corredi della necropoli di Carcegna (I secolo a.C.) e da una spada celtica con fodero da Mozzio di Crodo, testimonianze della locale popolazione leponzia, dedita alla pastorizia, alla caccia, alla guerra ed aperta ai contatti commerciali con il mondo romano e transalpino.
Grazie alla sua posizione quale luogo di transito Mergozzo assunse decisiva importanza in epoca romana. Una seconda sala illustra questo periodo, attraverso i materiali dai numerosi scavi effettuati in questa località, che consentono di cogliere sia i costumi funerari (due necropoli sono state riportate alla luce in località Cappella e Praviaccio, con nuclei tombali attribuibili dal I al III secolo d. C.), che alcuni aspetti della vita quotidiana e delle tecniche produttive antiche, (i resti di una fornace per laterizi databile ai primi secoli dell’Impero e le fondazioni di un edificio sono state rinvenute in località Robianco). Inoltre le vestigia di un grande edificio, un sacello, un’ara dedicata a Giove e varie tombe sono state scoperte in frazione Candoglia.
Accanto ai più comuni oggetti di vita quotidiana, vasellame in ceramica e vetro, ornamenti personali, attrezzi da lavoro, si segnalano alcuni reperti più rari o curiosi, quali le pedine colorate in vetro per il gioco di strategia dei latrunculi, o, ancora, uno stilo scrittorio in ferro. In particolare provenienti dalla necropoli alla “Cappella”, scoperta da Egisto Calloni nel 1898, sono esposti i corredi completi di sei tombe, rinvenute nel 1970, comprendenti due olpi, una lucerna, varie monete e altri oggetti che concorrono a datare la necropoli al I e II secolo d.C. Della necropoli in località “Praviaccio” sono esposti i corredi completi di sette tombe. Il materiale comprende ceramica di imitazione campana, coppette in terra cinerognola a pareti sottili, olpi di forme e dimensioni differenti, lucerne, fusaiole, balsamari in vetro, fibule in bronzo e in ferro, punte di lancia, un’ascia, anelli e numerose monete di bronzo (I – III sec. d.C.) Chiudono il percorso i reperti delle tombe tardo antiche (IV-V secolo d.C.) di Carcegna e quelli altomedievali di san Giovanni in Montorfano, aprendo uno sguardo sulla fine del mondo antico e la Cristianizzazione del territorio. Nei costumi funerari si osserva il ritorno del rito inumatorio con la deposizione nelle sepolture di corredi comprendenti gruzzoli di diverse decine di monete. I reperti dall’area di San Giovanni in Montorfano rivelano invece l’impianto di una delle prime chiese cristiane con annesso battistero (VI secolo d.C.).