LE MINIERE D’ORO DI SALASSI E ROMANI :LA BESSA.

La Bessa identifica un terrazzo alluvionale alla destra del fumo Elvo in Piemonte. Qui i Galli Salassi prima e dal 140 aC i Romani hanno svolto imponenti attività di sfruttamento di sabbie aurifere. Sono stati identificati sette abitati stagionali ricavati nei cumuli di ciottoli. Tutti gli abitati si trovano attorno ad uno spazio rettangolare. Sono stati rinvenuti oggetti di uso quotidiano sia di tradizione locale che importati datati tra gli ultimi decenni del II e la metà del I sec a. C. È stato ritrovato anche un gruzzoletto di Vittoriati all’interno di una intercapedine di un muro di una capanna.

Ceramiche dei minatori
Lucerne dei muratori
Attrezzi e lingotti dei minatori

Da bessa.it

Storia delle Miniere de la Bessa.

Situato all’ombra della grande morena pleistocenica della Serra il giacimento aurifero della Bessa era ai margini di una via di comunicazione che dalla fine del Neolitico collegava la Pianura Padana con la valle del Rodano e con l’altopiano Elvetico attraverso il passo del Gran San Bernardo. Testimonianze evidenti dell’esistenza di questa “via” sono le stele antropomorfe che arrivarono nel corso del III millennio a.C. al seguito di  correnti culturali  provenienti dall’oriente Mediterraneo e dal Mar Nero lungo itinerari di penetrazione che in buona parte sembrano coincidere con il cammino dei miti di Giasone e di Eracle (Mezzena 1998). 

Le ritroviamo dapprima nella fascia pedemontana poi in Valle d’Aosta e, oltre il passo alpino, nel cantone Vallese in Svizzera.  Nella necropoli megalitica di Saint Martin de Corleans (Aosta) abbiamo, con una magnifica serie di steli,  una prova della fondatezza dell’associazione di queste culture al mito di Giasone, dato che il rito preliminare per il loro impianto é consistito nell’aratura del terreno e nella semina di denti umani uguale quindi a quello che celebrarono gli Argonauti prima di partire alla conquista del Vello d’Oro. Un probabile percorso risalì la Dora Baltea (testimoniato dalle steli di Vestigné) e passò a breve distanza dalla Bessa, possiamo quindi ragionevolmente pensare che questi “cercatori di metalli” (il Vello d’Oro altro non è che la pelle di animale attraverso la quale venivano filtrate le sabbie aurifere) abbiano avuto la possibilità di venire a conoscenza dell’esistenza di questo esteso e ricco giacimento di superficie e delle sabbie aurifere dei corsi d’acqua che lo delimitavano.

Non vi sono tuttavia,al momento, testimonianze dirette che indichino con certezza uno sfruttamento protostorico del giacimento aurifero, ma il ritrovamento di due nuclei di ossidiana e la presenza di numerosi massi erratici con incisioni a “coppella” (alcune tipologie appaiono collocabili nelll’età del Rame/Bronzo Antico) attestano una intensa frequentazione protostorica dell’area che, a partire dal V/IV sec. a.C., era controllata dalla tribù celtica (o celto-ligure) dei Salassi, insieme al territorio biellese parte dell’attuale provincia di Torino e alla Valle d’Aosta.

Dagli storici Cassio Dione (155 – 235 d.C. ca) (1), Paolo Orosio (fine IV – inizio V sec. d.C.) (2) e dal geografo greco Strabone (64 a.C. – 21 d.C. ca) (3) abbiamo una serie di significative notizie sul giacimento della Bessa che brevemente riassumiamo (testi originali alle note 1/3). Nel 143 a.C. il console Romano Appio Claudio attaccò i Salassi  prendendo a pretesto una contesa tra questi e le popolazioni insediate nella pianura (in cui i primi venivano accusati di privare i campi coltivati dell’ acqua del fiume Duria, utilizzata per il lavaggio delle sabbie di un grande giacimento aurifero). Malgrado una disastrosa sconfitta iniziale, Appio Claudio si impadronì del territorio oggetto del contendere. Ritornato a Roma chiese al senato il “trionfo” ma gli fu rifiutato a causa dell’elevato numero di perdite. Appio Claudio se lo autoconcesse pagando di propria tasca le spese, ma la parata rischiò di finire in rissa e per evitare di essere assalito da alcuni tribuni il console fece salire sul proprio carro la sorella vestale per beneficiare della sua inviolabilità. Appio Claudio che apparteneva ad una dinastia che oltre a tramandarsi il nome si tramandava anche il consolato era suocero di Tiberio Gracco uno dei famosi “gioielli” di Cornelia, figlia di Scipione Africano vincitore della battaglia di Zama.

L’identificazione del suddetto giacimento con la Bessa (o più probabilmente con le sabbie fortemente aurifere dei corsi d’acqua circostanti) non è certa, ma molto verosimile dato che doveva trattarsi di entità di grandi dimensioni. Si deve pensare che Strabone citando la Duria non si riferisse all’attuale fiume Dora che scende dalla Valle d’Aosta ed é separato dalla Bessa dalla grande morena della Serra, ma lo utilizzasse come idronimo dato che non esistevano nella regione altri giacimenti di consistenza tale da giustificare una, sia pur pretestuosa, disputa sull’acqua. Si deve ricordare a questo proposito che in Valle d’Aosta esistono numerose Dore (Savarenche, Rheme ecc.), in Piemonte la Dora Riparia, in Savoia e Vallese sono comuni le Doire, Doron ,Drance e Duria era l’antico nome del fiume Duero. Il testo di Strabone evidenzia anche che i Salassi controllavano le sorgenti del corso d’acqua e quindi evidentemente erano in grado di controllarne anche il flusso, cosa assolutamente impossibile se si fosse trattato della Dora Baltea. Anche a sud del lago di Viverone, in comune di Mazzè, dove la Dora esce dall’anfiteatro morenico di Ivrea vi è una zona di sfruttamento aurifero di modeste dimensioni che in parte si adatterebbe alla descrizione di Strabone. In questa zona si potevano effettivamente utilizzare le acque della Dora Baltea, ma l’ampiezza del cantiere non è compatibile con l’impoverimento della portata del corso d’acqua e con il controllo delle sorgenti. L’ipotesi più attendibile e maggiormente in linea con il testo di Strabone (suddivisione del corso d’acqua in canaletti) indirizza verso una estrazione dell’oro contenuto nell’alveo dei torrenti che delimitavano il giacimento alluvionale (gli attuali Elvo, Viona e Olobbia), i quali, ancora oggi, contengono buone quantità di metallo in pagliuzze.

Il 140 a.C. è quindi il termine post quem i pubblicani romani poterono avere in appalto la miniera d’oro e il ritrovamento, nella zona centrale della Bessa non lontano dalla frazione Vermogno, di un tesoretto di 10 Vittoriati e 3 Denari d’argento il più recente dei quali è databile al 118 a.C. e di un Asse nella zona settentrionale databile al 91 a.C. conferma l’attribuzione dei lavori al II – I sec. a.C.

L’oro era di proprietà dello Stato ed un Procurator metallorum  era posto a capo dell’amministrazione. Il testo di Strabone conferma anche che il metallo era già estratto dai Salassi (gli Ictimuli citati da Plinio erano probabilmente Salassi che avevano come centro di riferimento il villaggio omonimo), evidentemente su scala non semplicemente artigianale. Da Plinio (23 – 79 d.C.) abbiamo invece la prova della dimensione del cantiere poiché, a proposito della Bessa, cita una lex censoria (4) che, probabilmente per problemi di ordine pubblico, vietava l’utilizzo nelle aurifodinae di più di 5000 lavoratori, ciò significa che vi furono periodi in cui il loro numero dovette essere maggiore. E’ probabile che questo numero non si riferisse ai soli addetti ai lavori minerari ma al totale dei lavoratori impiegati compresi quindi quelli coinvolti nelle attività che oggi sarebbero chiamate: “l’indotto”.
L’apertura dei cantieri provocò certamente una imponente rilocazione di popolazioni di etnia salassa verso l’area della Bessa e una modifica alla loro struttura sociale ed economica (l’approvvigionamento in viveri e materiali doveva rappresentare un importante problema) dato che si ritiene che la mano d’opera fosse costituita da comunità di “dedicti” che, dopo la sconfitta, pagavano tributo a Roma con il lavoro. Inoltre in prossimità della miniera doveva essere necessaria la presenza dell’esercito dato che si trattava di zona di confine con popolazioni che furono totalmente sottomesse solo sotto Augusto.

Il periodo di sfruttamento della Bessa è stato uno dei più turbolenti nella storia della Repubblica. Viene immediatamente dopo la caduta di Cartagine ad opera di Scipione Emiliano poi ucciso da Caio Gracco, l’altro “gioiello” di Cornelia. In seguito arrivarono le invasioni dei Cimbri che furono sconfitti da Mario nei pressi di Vercelli nel 101 a.C. e le lotte tra lo stesso Mario e Silla. E’ probabile che l’oro della Bessa sia servito a finanziare i vari contendenti fino alla presa del potere da parte di Cesare, che era scampato alle liste di proscrizione (eliminazione fisica) emesse da Silla.

Non è nota la durata del periodo di sfruttamento (probabilmente un centinaio di anni) sappiamo però che all’epoca in cui scriveva Strabone le miniere erano già state abbandonate (o esaurite) e l’oro di Roma proveniva ormai in massima parte dall’Iberia e dalla Gallia.

Amministrativamente la miniera dipese nella fase iniziale da Vercelli poi, in seguito alla deduzione di Eporedia (Ivrea) nel 100 a.C., passò, secondo una tesi recente, sotto questa. Lo testimonierebbero indirettamente alcune lapidi ed iscrizioni di cittadini eporediesi, rinvenute ai margini della Bessa (fraz. Riviera di Zubiena) e sul sito di S.Secondo di Salussola, da alcuni ritenuta l’antica Victimula. La lapide di Riviera è relativa ad un sacerdote di Augusto, l’iscrizione di S.Secondo ricorda la donazione di un ponderarium (struttura in cui venivano conservati pesi e misure) da parte di un magistrato. A questo proposito si deve però constatare che le iscrizioni sono di età alto imperiale, che sia Strabone che Plinio, attivi in epoca posteriore alla chiusura della miniera, la collocano  vicino a, o nell’ager di Vercelli senza menzionare Eporedia. L’identificazione della Ictimuli/Victimulae, citata dagli storici,  con il centro direzionale delle aurifodinae non è stata fino ad ora confermata, dato che la datazione dei reperti e delle strutture indagate a S.Secondo non sono antecedenti l’età Imperiale e nessuna necropoli contemporanea al periodo di “coltivazione” é per ora venuta alla luce. Un vicus a nome Ictimuli o Victimula è sicuramente esistito dato che oltre Strabone anche l’Anonimo Ravennate (VII sec.) la cita situandola vicina all’attuale Ivrea (5).

La ricerca dell’oro continuò anche nei secoli successivi e prosegue ancora attualmente a livello amatoriale  ad iniziativa di singoli e limitata alle sabbie provenienti dal rimaneggiamento dei depositi delle morene ad opera dei torrenti.

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1. “(Appio) Claudio, il collega di Metello al consolato, orgoglioso di nascita, e geloso di Metello, ottenne dalla sorte di governare l’Italia, ma non avendo alcun nemico, e desiderando assolutamente ottenere una brillante vittoria; spinse la tribù gallica dei Salassi – che non aveva ragioni di conflitto – a entrare in guerra contro i Romani. Inviò loro qualcuno per mettere pace, disse, tra di loro e loro vicini, poiché non vi era accordo circa l’acqua necessaria alle miniere d’oro; e fece delle incursioni attraverso tutto il loro paese.”

2. “Appio Claudio attaccò il Galli Salassi e nella sua disfatta perse cinque mila soldati, dopo aver nuovamente dato battaglia uccise cinque mila nemici ma benchè avesse chiesto il trionfo, che la legge prevedeva per chi avesse ucciso cinque mila nemici, non lo ottenne a causa delle maggiori perdite subite, egli diede prova di una impudenza e di una ambizione incredibile trionfando a proprie spese”

3. ” Il paese dei Salassi ha pure delle miniere, di cui un tempo, quando ancora erano potenti, i Salassi erano padroni, cosi come erano padroni dei valichi alpini. Nella produzione mineraria era loro di grande aiuto il fiume Duria per il lavaggio dell’oro; perciò in molti punti, dividendo l’acqua in canaletti, svuotavano la corrente principale. Questo serviva a quelli per la produzione dell’oro, ma danneggiava gli agricoltori che coltivano le pianure sottostanti, privati dell’acqua di irrigazione…. Per questo motivo vi erano continui conflitti tra le due popolazioni.”


” Dopo la vittoria dei Romani, i Salassi furono cacciati dalle miniere e dal territorio circostante, ma perché continuavano ad occupare i monti, fino a poco fa vendevano l’acqua ai pubblicani che avevano appaltato i lavori delle miniere d’oro e vi erano continue liti coi Salassi per la cupidigia dei pubblicani .”

” Quanto allo sfruttamento delle miniere, oggi non avviene più come prima, perché quelle dei Celti transalpini e parimenti quelle dell’Iberia sono più proficue. Una volta invece, quando anche a Vercelli c’era una miniera d’oro, era in vigore tale sfruttamento. Vercelli è un villaggio vicino a Ictimuli che pure è un villaggio: entrambi sono vicini a Piacenza .”

4. “Extat lex censoria ictimulorum aurifodinae in Vercellensi agro, qua cavebatur, ne plus quinque milia hominum in opere  publicani haberent .”

5. ” Iuxta Eporedia non longe ab Alpes est villa quae dicitur Victimula.”

Altro Link:

http://www.bessa.it/strutture.htm Emergenze archeologiche.pdf

http://www.toureditor.com/viewCopertinaTour.php?id=183&TourEditor=La%20leggenda%20del%20cavallo%20doro

https://www.academia.edu/resource/work/44082446

PERMALINK http://doi.org/10.14277/978-88-97735-27-4

CHI ERANO I SALASSI:

SCHIAVI E LIBERTI NELL’EPIGRAFIA DELLA GALLIA CISALPINA

Schiavi e liberti municipali nell’epigrafia latina della Gallia Cisalpina

Luciani, Franco <1981>
transpadana - Ambiente & Cultura

La tesi prende in esame tutto il patrimonio epigrafico di età romana relativo agli schiavi e i liberti pubblici municipali della Gallia Cisalpina: Regiones VIII, IX, X, XI. Dopo un inquadramento storico-geografico della regione in epoca romana (Capitolo 1), vengono analizzate tutte le iscrizioni latine relative ai membri della familia publica, andando a costituire un corpus di 69 testimonianze (Capitolo 2); tutti i documenti, se ancora esistenti e reperibili, sono stati sottoposti ad autopsia. Segue uno studio prosopografico del personale subalterno di proprietà pubblica operante in Gallia Cisalpina (Capitolo 3); oltre alle testimonianze certe di schiavi e liberti pubblici sono esaminate anche le attestazioni di individui portatori del gentilizio Poblicius/Publicius o di nomina coniati su nomi di città. Vengono poi analizzate le attività professionali alle quali risultano deputati i servi e i liberti publici in Gallia Cisalpina (Capitolo 4). Infine è affrontato il problema della posizione sociale dei servi e dei liberti municipali nelle città della Gallia Cisalpina (Capitolo 5).

Stele funeraria del gladiatore Urbicus - Yelp

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UN SANTUARIO DI CELTI E CAMUNI ALLE SORGENTI DEL BREMBO.

Preistoria ad alta quota, l'incontro a Piazza Brembana - Corriere.it

ARTICOLO ACCADEMICI  DI STEFANIA CASINI DA

2010, Notizie Archeologiche Bergomensi, 16, 2008 IN PDF SCARICABILE QUI:

Incisioni_protostoriche_e_iscrizioni_lep

INCISIONI_RUPESTRI_E_ISCRIZIONI_PREROMAN

Ricerche archeologiche alle sorgenti del Brembo:
ricognizioni e scavi in Val Camisana
(Carona, Bergamo) tra il 2009 e il 2017
Enrico Croce – Diego Veneziano – Lorenzo Castellano

Ricerche_archeologiche_alle_sorgenti_del

PressReader - Corriere della Sera (Bergamo): 2016-10-18 - Il calco ...

Erano pastori, erano cacciatori, forse mercanti, forse soldati. Salivano quassù e pregavano. Cinquecento anni prima di Cristo. Qualcuno di loro incideva un disegno, un graffito sulla pietra. Quassù, sui pascoli dell’Armentarga, fra i 2.100 e i 2.400 metri di quota, sopra Carona, sopra il Rifugio Longo, appena oltre il Passo della Selletta. La notizia delle incisioni rupestri in Alta Val Brembana venne resa pubblica nell’estate del 2007. Da allora le ricerche sono proseguite.

Ritrovamenti archeologici sul Monte Aga

Dice l’archeologa Stefania Casini: «Le segnalazioni sono arrivate nel 2005 da appassionati escursionisti della Val Brembana da Francesco Dordoni e da Felice Riceputi, esperto di storia locale. Andammo a verificare, rintracciammo un grande masso con numerosi graffiti, fra i quali due scritte estese in quello che ci rendemmo conto era l’alfabeto nord etrusco. Affidammo le scritte a un esperto, il professor Filippo Motta, docente di linguistica alla Normale di Pisa. Motta ci raggiunse quassù per rendersi conto di quanto avevamo trovato».

Ritrovamenti archeologici sul Monte Aga

Per arrivare ci si incammina a Carona, si tocca il rifugio Longo, poi si sale al lago del Diavolo, sotto la piramide nera del Monte Aga. Da qui si prende un sentiero impervio che porta al Passo della Selletta: dal passo lo sguardo spazia sui pascoli alti dell’Armentarga, accessibili soltanto nella bella stagione, un anfiteatro dominato dal Diavolo, Grabiasca, Poris, vette che sfiorano i tremila metri. È un luogo di grande suggestione, dominano il verde del pascolo, il nero delle grandi vette, l’azzurro del cielo. C’è un senso di sacro in questo posto. Lo stesso senso religioso che forse hanno respirato quegli uomini che due-tremila anni fa si spingevano quassù. Il primo masso con una scritta si trova appena oltre il passo, un masso bianco, liscio come una lavagna. Si leggono diverse frasi, non particolarmente antiche.

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«Tra gli elementi interessanti se ne segnala uno particolare: le scritte e i segni partono da diversi secoli prima di Cristo e arrivano praticamente ai nostri giorni», racconta Stefania Casini. Tra le prime scritte che s’incontrano c’è questa: «Vincenzo Bigoni di Ludrigno, 24 agosto 1742». Sullo stesso masso si notano disegni geometrici, stelle, nodi di Salomone, stelle a cinque punte. Simboli magici in un posto che è magico, dominato dall’azzurro, con le torbiere e i piumini bianchi come fiocchi di neve, qui attorno.

«All’inizio trovammo due scritte che si facevano risalire al II e III secolo avanti Cristo – spiega Stefania Casini -. Ne abbiamo scoperte molte altre, adesso siamo a quaranta scritte che risalgono all’età del ferro, scritte in nord etrusco e anche precedenti, in alfabeto camuno. Abbiamo appurato che in questa zona sono passati i Camuni e successivamente i Celti prima che arrivassero i Romani. Non riusciamo a tradurre il camuno perché non possedevano una lingua indoeuropea, probabilmente erano popolazioni autoctone. Le scritte dei Celti riusciamo invece a interpretarle: abbiamo trovato diversi nomi propri come Ilus, Busos, “Ateriola figlio di Niako”, e abbiamo pensato che nei paesi di questa zona è in effetti molto diffuso il cognome Arioli, forse esiste un nesso. Ma le ricerche che abbiamo effettuato con i carotaggi a cura del Cnr hanno messo in evidenza come questa zona fu frequentata dagli uomini già dall’età del rame, ovvero circa il 2.800 avanti Cristo. Arriviamo più o meno al periodo di Oetzi, il cacciatore che venne rintracciato mummificato al ghiacciaio di Similaun e che ora si trova nel museo di Bolzano».

lago carona 6 | Laghetti Alpini

I massi con i graffiti sono diverse decine in un’area di diverse centinaia di metri quadrati. Tra le rocce la più interessante è quella con la scritta in alfabeto Camuno. In quella zona gli archeologi hanno effettuato degli scavi e hanno scoperto dei chiodi in ferro di periodo romano, un «aes rude», sorta di pre-moneta in metallo, e una fibula in bronzo datata attorno al V secolo a. C., in sintonia con il tipo di disegno trovato sul masso, che riporta alla cultura druidica: una piccola figura di offerente e la scena con un personaggio con cappello a larghe falde, lunga tunica e cintura romboidale, circondato da due o tre lupi a fauci aperte. Questo elemento, insieme alle scritte ritrovate, fa pensare che nella zona si celebrasse il culto al dio celtico Pennino, divinità dei passi e delle vette.

Ma perché qui? Che cosa custodivano questi luoghi, al di là dei pascoli estivi? A questi interrogativi risponde Stefania Casini: «La scoperta di iscrizioni di Camuni e Celti avvalora l’importanza del passo di Valsecca, a poca distanza da questi luoghi, nell’ambito dei percorsi montani d’alta quota. Le iscrizioni rinvenute, i riferimenti al dio Pennino in alfabeto nord-etrusco, alcuni pezzi di metallo che possono venire considerati come pre-monete probabilmente lasciati in senso votivo sul luogo, sono tutti elementi che fanno pensare a questa zona, e in particolare al più grande dei massi incisi nella Val Camisana, come a un santuario, una zona sacra frequentata da pastori e cacciatori e forse anche percorsa da commerci. Era questa la via che metteva in comunicazione Val Seriana e Val Brembana, una via secondaria, ma molto frequentata».

Cacciatori, pastori, commercianti: nelle valli bergamasche del V secolo a. C. si camminava, si viaggiava, si comunicava. E si pregava. Si chiedeva al dio Pennino di concedere un viaggio sicuro e sereno, al riparo dai fulmini, dalle frane, dai lupi, dagli orsi.

 

DA ecodibergamo.it

Paolo Aresi

 

I Celti alle radici di Bergamo | Il Sizzi

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Nel 2019 e’ stato eseguito un calco per facilitare lo studio e la conservazione del reperto

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Inaugurato il calco del masso della Val Camisana

È stato inaugurato sabato 28 luglio a Carona il calco del masso archeologico denominato “Camisana 1”, una grande roccia della superficie di circa 30 metri quadrati, situata in Val Camisana, lungo le pendici meridionali del Monte Aga, sul sentiero che porta al rifugio Calvi, tra quota 2100 e 2400 m s.l.m. Il calco, fortemente voluto dal Centro Storico Culturale Valle Brembana, è stato eseguito dalla società Ambracore s.n.c. non senza difficoltà, considerata la dimensione del monumento, la quota a cui si trova e la distanza da strade percorribili con mezzi idonei al suo trasporto. Il progetto viene incontro a una serie di esigenze, tra cui quella di rendere più agevole lo studio, quella di mostrare il monumento a un pubblico più vasto e, non ultima, quella di fissare ad oggi lo stato di conservazione del masso, che purtroppo è esposto a un più o meno lento degrado nel suo ambiente naturale. Il calco è stato collocato di fianco alla chiesa parrocchiale ed è stato dedicato a Felice Riceputi, che insieme a Francesco Dordoni, colse per primo l’importanza dell’intero comprensorio di incisioni rupestri. La felice collaborazione tra il Centro Storico Culturale Valle Brembana, il Comune di Carona e il Civico Museo Archeologico di Bergamo, con il contributo della Famiglia Riceputi e del Consorzio BIM Bergamo, non solo ha permesso di valorizzare un monumento unico in tutta Europa, ma anche di ricostruirne la storia, attraverso lo studio e la ricerca archeologica, restituendogli il significato che ha avuto attraverso i secoli. Alle ore 16,30, nel salone parrocchiale, sono stati presentati i lavori di esecuzione del calco e della restituzione della copia, identica all’originale. La riunione si è aperta con saluto di Giancarlo Pedretti, sindaco del comune di Carona, che ha coperto buona parte dei costi per la realizzazione del calco. È seguito l’intervento di Tarcisio Bottani, presidente del Centro Storico Culturale Valle Brembana, che ha promosso e sostenuto la realizzazione del calco, nel nome del compianto presidente Felice Riceputi. Si è conclusa con la relazione della direttrice del Civico Museo Archeologico di Bergamo, Stefania Casini, che ha illustrato gli aspetti tecnici e il significato culturale dell’iniziativa, e con quella di Filippo Motta docente di Filologia celtica dell’Università di Pisa, che si è soffermato sugli aspetti paleolinguistici connessi con le iscrizioni. Il masso è un vero e proprio monumento, per le sue dimensioni, la posizione dominante sulla valle e il ricco repertorio figurativo di età storica e protostorica. Le figure più antiche, databili al V secolo a. C., sono di due lupi a fauci aperte, rivolte verso un personaggio con lunga tunica e cappello a larghe falde; della stessa epoca una piccola figura di offerente posto di profilo. Alcune iscrizioni, incise con l’alfabeto leponzio, o di Lugano, che ha tratto i propri segni da quello etrusco, sono di nomi propri, talvolta abbreviati. Due iscrizioni riportano il nome di Pennino, il dio celtico delle vette e protettore dei valichi di montagna. Si datano tra il III e il I secolo a.C. Il masso Camisana 1 era probabilmente un piccolo santuario naturale sotto le vette e presso le sorgenti del Brembo. La presenza di centinaia di iscrizioni preromane fanno del masso un monumento del tutto unico non solo in Italia, ma in tutto il mondo celtico europeo. Reportage fotografico (clicca QUI)

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CISALPINI NELLE LEGIONI ROMANE

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Maurizio Pasquero

 

I Celti della Valle del Po negli eserciti di Roma 

 

(ausiliari, legionari, pretoriani dal II secolo a.C. al III secolo d.C.)

 

Presentazione di Venceslas Kruta
“Gli Archi”, Il Cerchio, Rimini, 2012, pp. 136+XVI, euro 19,00
INDICE
PRESENTAZIONE di Venceslas Kruta
PREMESSA
Capitolo I – LA FINE DELLA CISALPINA INDIPENDENTE
Capitolo II – AUSILIARI NELLE ARMATE TARDOREPUBBLICANE
Capitolo III – L’EXERCITUS GALLICUS DI CESARE
Capitolo IV – NELLE LEGIONI IMPERIALI
Capitolo V – DAI DISASTRI DELLA GUERRA AI FASTI DEL PRETORIO
Capitolo VI – UN LUNGO ADDIO ALLE ARMI
CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA

 

GALLIA CISALPINA VIABILITA’ E VIE DI COMUNICAZIONI VERSO LE GALLIE

PUBBLICAZIONE DI ADA GABUCCI SULLA DISTRIBUZIONE DELLA CERAMICA SIGILLATA GALLICA LUNGO L ASSE DEL PO

LINKS: https://books.openedition.org/efr/3248#tocfrom3n1

1La Cisalpina, soprattutto a nord del Po, apparentemente è un territorio vasto completamente chiuso tra le montagne e il mare, un cul de sac su cui incombono le più alte vette del nostro continente. In realtà i grandi laghi alpini e le vallate scavate dai corsi d’acqua aprono un ventaglio di passaggi, grandi e piccoli, più o meno agevoli, che permettono di raggiungere le diverse regioni dell’Europa interna, dando alla Cisalpina un ruolo di cerniera tra il Mediterraneo e l’Europa continentale1. Al centro il Po che, per quanto non sia un fiume della portata e della lunghezza del Rodano, del Reno o del Danubio, è l’asse portante di una rete fluviale che mette in comunicazione tra loro i due versanti della penisola e collega le montagne al mare2. Già in età protostorica il transito attraverso la pianura Padana non era affatto solo un’alternativa all’uso di scali marittimi più occidentali, come il porto di Massalia, ma una via autonoma e ben strutturata che probabilmente rispondeva a esigenze diverse e complementari3.

2Rimasti per diversi secoli fuori dall’orbita di Roma, i territori cisalpini vedono nel 218 a.C. la deduzione delle due colonie gemelle di Placentia e Cremona, poste a guardia dell’accesso sudoccidentale della pianura. Distrutte durante la seconda guerra punica, le due città vengono rifondate nel 190 a.C., e poco dopo sorgono Bononia (nel 189 a.C.) e Mutina e Parma (nel 183 a.C.).

3Il processo di romanizzazione, che prosegue per tutto il II e il I secolo a.C., fa arrivare in area padana una notevole massa di italici grazie alle nuove distribuzioni di terre ai veterani. Contemporaneamente Roma avvia una serie di azioni militari che mirano alla sottomissione delle numerose tribù liguri. La lotta però, soprattutto a causa dell’aspra conformazione della regione, si rivela lunga e logorante, se pure condotta contro nemici incapaci di trovare una linea di azione comune. Nel 155 a.C. i Romani riescono a imporsi e a stipulare trattati separati con le diverse comunità ; sul territorio ligure vengono dedotte solo le colonie di Luni, Lucca e Veleia e ampi tratti transappenninici sono divisi in lotti di terreno individuali. La Liguria costiera, a eccezione di alcuni porti come quello di Genova4, rimane piuttosto isolata, chiusa tra il Tirreno e il retroterra appenninico5. La penetrazione nella Liguria interna, invece, è graduale, probabilmente già preceduta da vivaci scambi commerciali, e nuovi centri sorgono abbastanza rapidamente, spesso in corrispondenza di insediamenti preesistenti6.

Fig. 11 – L’Italia settentrionale con l’evidenza del bacino del Po e il tracciato della via Postumia.

Fig. 11 – L’Italia settentrionale con l’evidenza del bacino del Po e il tracciato della via Postumia.

4La penetrazione romana nei territori pedemontani ha inizio alla metà del II secolo a.C. con alcuni interventi ai danni dei Salassi della Val d’Aosta, che miravano a ottenere il controllo delle miniere d’oro della parte meridionale della regione e dei giacimenti della Bessa7 ; nel 100 a.C., sul limite sud del territorio salasso, viene fondata la colonia di Eporedia. I Salassi continuano comunque a sorvegliare il passaggio verso i valichi, imponendo pedaggi a coloro che transitavano, compresi gli eserciti, così che una delle prime operazioni volute da Augusto nella regione è il loro annientamento : secondo quanto narrano le fonti quasi tutta la popolazione viene tradotta in schiavitù e sul territorio confiscato viene dedotta la colonia di Augusta Praetoria8.

5Nel resto della Transpadana e più in generale di tutta la Cisalpina a nord del Po, la penetrazione romana progredisce rapida e senza interruzioni, con un processo di assimilazione e alleanze ben lontano da quella sorta di pulizia etnica che aveva caratterizzato la conquista di altre regioni, Cispadana compresa9.

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La Cispadana dopo le guerre Puniche

Le confische sembrano molto circoscritte e i territori dei popoli locali subiscono decurtazioni irrilevanti, senza che vi sia dedotta alcuna colonia, tranne Aquileia, fondata già nel 181 a.C. come avamposto strategico.

6L’occupazione dei territori transpadani, ormai completata verso la metà del I secolo a.C.10, costituiva una sicura fonte di ricchezza agricola e dava a Roma un facile controllo delle strade di accesso alle valli alpine e da lì alle regioni transalpine ; in questo panorama il Po assume rapidamente un ruolo di primissimo piano. Il fiume, confine naturale tra la Liguria (regio IX) e la Transpadana (regio XI), era la più comoda via di transito per le merci, soprattutto se pesanti e ingombranti. L’importanza economica dell’attività di navigazione fluviale è testimoniata dalle epigrafi che menzionano le corporazioni di nautae o naviculariipresenti lungo il Po e i suoi principali affluenti, nonché sui laghi11. Con la sua rete di immissari e canali, il fiume, che doveva essere navigabile fino a Torino, poteva assicurare il veloce spostamento delle truppe e anche una notevole rapidità nei rifornimenti e nelle comunicazioni, fino a raggiungere i grandi laghi pedemontani12.

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Sigillata gallica museo Torino

 

7Le comunicazioni tra i diversi centri posti lungo i fiumi erano inserite in un sistema garantito dal servizio pubblico, che sfruttava al meglio il trasporto via acqua, più vantaggioso rispetto a quello via terra : per andare da Milano a Ravenna erano necessarie otto giornate di viaggio di un uomo ben allenato, mentre erano sufficienti tre giorni e due notti per recarsi, per via fluviale, da Pavia a Ravenna13. Strettamente connesso era anche tutto l’apparato della viabilità terrestre, che aveva come asse principale e ossatura portante la via Postumia. Il centro di tutto questo complesso sistema di percorsi era nelle colonie gemelle di Piacenza e Cremona, là dove il fiume e la strada si incontravano tra loro e con il sistema stradale via Postumia – via Emilia – via Iulia Augusta14.

3.1. LA TRANSPADANA OCCIDENTALE E LE PROVINCE ALPINE. IL TRANSITO SUI VALICHI

8Fin dalla preistoria le Alpi non sono state una barriera, ma piuttosto un luogo di passaggio, uno spazio intermedio a volte impervio e difficile, ricco però di itinerari naturali capaci di sfruttare la geomorfologia dei luoghi seguendo valli, solchi fluviali e varchi nelle rocce. I valichi hanno ricevuto nomi precisi, che sono stati tramandati nei secoli, e molto spesso nei punti di transito obbligato o quelli di connessione tra le vallate si sono sviluppati piccoli insediamenti e luoghi di culto15.

[Polibio] menziona solo quattro passaggi [nelle Alpi] : il primo nel territorio dei Liguri, vicino al mar Tirreno, poi quello attraverso il territorio dei Taurini, utilizzato da Annibale, poi quello che percorre il territorio dei Salassi, e infine il quarto nel territorio dei Reti, tutti e quattro ripidi16.

9Strabone, nel riassumere uno dei libri perduti dell’opera di Polibio, descrive abbastanza chiaramente quelli che erano, secondo lo storico greco, i passi realmente transitabili nelle Alpi. Dei quattro valichi elencati da Polibio, due sono quelli che interessano direttamente l’estremo lembo occidentale della Cisalpina ; quello che si trovava nel territorio dei Taurini e quello del territorio dei Salassi.

10Circa mezzo secolo prima della narrazione di Polibio era sceso in Italia, attraversando il territorio dei Taurini, Annibale alla testa del suo esercito e accompagnato da una mandria di elefanti, che aveva stupito e terrorizzato le popolazioni locali17. È suggestivo pensare che tracce del suo passaggio possano essere in alcuni vaghi di collana e frammenti di balsamario di produzione punica trovati, sporadici, insieme ad altri oggetti dell’età del Ferro e a materiale di epoca romana, vicino ad Avigliana, allo sbocco della val di Susa18.

11La traversata di Annibale è certo stato un episodio epico e una dimostrazione di grande intraprendenza e coraggio (o forse incoscienza), ma è evidente che gli scambi e i passaggi di uomini, cose, esperienze e idee tra i due versanti delle Alpi si sono susseguiti senza soluzione di continuità fin dalla preistoria e che l’eccezionalità dell’impresa annibalica sta esclusivamente nella presenza degli elefanti19. È ragionevole pensare, infatti, che itinerari individuati già in epoche remote, lungo i quali si erano sviluppati precocemente alcuni abitati della Cisalpina come centri di smistamento verso la Gallia e le regioni del nord Europa, siano stati poi strutturati e consolidati con il passare del tempo e il progredire delle conoscenze tecniche20.

 

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12Per raggiungere Lugdunum dal territorio dei Salassi, dunque, si poteva valicare il Piccolo San Bernardo, nelle Alpi Graie, e attraversare le terre dei Ceutrones, oppure affrontare il Poeninus, il Gran San Bernardo. Secondo Strabone21 il primo tragitto era più agevole ed era percorribile quasi interamente con i carri, mentre l’altro era stretto e ripido, ma più breve. Più a ovest, nel territorio dei Cozii, si aprivano il valico del Monginevro e quello del Moncenisio. « Le grandi vie romane, le quali collegavano l’Italia con la valle del Rodano, erano quelle delle due Dore : il Mons Matrona( Monginevro ), la Alpis Graia (Piccolo San Bernardo ) e l’Alpis Poenina ( Gran San Bernardo ). »22

13La sistemazione degli itinerari principali è opera di Augusto che, più o meno negli ultimi quindici anni del I secolo a.C., realizza opere importanti per la viabilità alpina principale con lo scopo di dare continuità ai territori dell’impero e di realizzare un collegamento più rapido e agevole verso il fronte militare della Germania : il passaggio più meridionale è prossimo alla costa, a La Turbie ; più a nord vengono sistemati il Monginevro e i passi del Piccolo e Gran San Bernardo23.

Fig. 12 – La viabilità alpina (in nero), i limiti presunti delle province nella prima età imperiale (in rosso) e le città principali (in blu).

Fig. 12 – La viabilità alpina (in nero), i limiti presunti delle province nella prima età imperiale (in rosso) e le città principali (in blu).

3.1.1. CARRI E ANIMALI IN QUOTA

14Gli apprestamenti messi in opera dai romani per superare pendenze e dislivelli nei punti più impervi dei valichi sono stati riconosciuti in diverse località. Si tratta quasi sempre di opere titaniche che servivano a risolvere passaggi molto difficili e a superare grossi ostacoli, in modo da utilizzare la via più veloce e breve, obiettivo che sembra essere stato sempre ben presente nella pianificazione della rete viaria romana. Tracce di ruote di carro profonde quasi mezzo metro e poste a una distanza regolare di 107 cm sono evidentemente dei binari tracciati volutamente nella roccia per agevolare il passaggio di carri pesanti, con ruote che dovevano avere un diametro anche superiore al metro24. Probabilmente nei tratti più ripidi ci si poteva avvalere anche di gradini in legno, verricelli e scanalature antiscivolo e non è escluso che, nei passaggi più difficili, i carri venissero in qualche modo smontati come succedeva anche in epoche molto più recenti.

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15Il sistema delle strade con binari era usato sia nei tratti rocciosi che in quelli paludosi, che venivano consolidati con la posa in opera di tronchi. Quasi certamente è stata una pratica utilizzata molto a lungo nel corso dei secoli, anche dopo l’età romana. È possibile che un documento d’archivio dell’Unteren Hauenstein (Svizzera) descriva questa consuetudine in voga ancora alla fine del XVII secolo : « … undt die Karrenklais wiederumb frischer dingen auszuhawn’ (… e scavare di fresco ancora una volta le rotaie dei carri). »25.

16La datazione dei tracciati e dei loro successivi rifacimenti non è cosa semplice, ma il rinvenimento, ad esempio nell’area sotto lo Spluga, di un ipposandalo avvalora l’ipotesi che si tratti di apprestamenti realizzati già in età romana26. È ipotizzabile quindi un sistema di salita ai passi con i carichi appositamente imballati e sistemati in parte su carri adatti al percorso e in parte su bestie da soma, come peraltro si è continuato a fare ancora per tutto il XIX secolo. Dall’affitto di carriaggi e soprattutto di muli da soma in zone montane impervie, dove era necessaria anche una guida esperta, si potevano certamente trarre notevoli guadagni, come sembra aver fatto Ventidio Basso, console nel 4327. Interessanti e importanti rinvenimenti archeologici individuano nel vicus di Clavenna(Chiavenna) uno dei luoghi di sosta e di modifica dell’assetto dei carichi al momento di varcare le Alpi28.

3.1.2. IL GRAN SAN BERNARDO

17Il passo del Gran San Bernardo (2473 m s.l.m.)29 è senz’altro la via più diretta per collegare l’Italia alla Svizzera occidentale e più in generale ai centri del nord Europa, seguendo un percorso noto già in epoca preistorica30. La strada che percorriamo oggi, inaugurata nel 1905, porta da Aosta al colle in 80 km e in altri 45 km raggiunge Martigny, ma in età romana il percorso doveva essere sensibilmente più breve31. Sebbene non sia espressamente nominato, il valico è ben riconoscibile nella descrizione di una delle spedizioni di « pulizia » di Cesare, nel 57-56 a.C. :

Cum in Italiam proficisceretur Caesar, Servium Galbam cum legione duodecima et parte equitatus in nantuates Veragros Sedunosque misit, qui a finibus Allobrogum et lacu Lemanno et flumine Rhodano ad summas Alpes pertinent. Causa mittendi fuit, quod iter per Alpes, quo magno cum periculo magnisque portoriis mercatores ire consueverant, patefieri volebat32.

18Il racconto di Cesare chiarisce subito che già alla metà del I secolo a.C. il Gran San Bernardo era utilizzato per il commercio tra i due versanti delle Alpi e non è difficile immaginare che si trattasse di traffici che in qualche modo dovevano interessare un territorio più vasto rispetto a quello del solo mercato locale33. In un primo tempo la strada del valico era considerata una scorciatoia, piuttosto dura e non percorribile con i carri nei tratti in quota, ma dopo la riorganizzazione della viabilità in età claudia il percorso diventa probabilmente statale e viene sistemato con dei tratti di strada tagliati nella roccia, che lo devono aver reso interamente carrozzabile34.

19Ciò non significa affatto che il traffico fosse continuo, perché è molto probabile che i carri a due ruote tirati da muli riuscissero a percorrere tutto il valico solo nella bella stagione, da giugno o luglio fino alle prime nevi di ottobre. Per il resto dell’anno era possibile un transito limitato, con guide locali in grado di condurre i viaggiatori sulla neve battuta : tra marzo e aprile del 69 le truppe inviate da Vitellio entrano in Italia da quella che era considerata la via più breve, attraverso le Alpi Pennine ancora coperte di neve35. Nella primavera seguente altre legioni faranno la stessa strada in senso inverso ; una legione passerà in Gallia, invece, dal monte Graio, il Piccolo San Bernardo36. È probabile che episodi come questi, a cui gli storici antichi non sembrano dare molto risalto e che Tacito riporta solo perché funzionali al racconto, non fossero affatto isolati e che nella seconda metà del I secolo d.C. le infrastrutture e gli apprestamenti lungo la via fossero ormai molto efficienti. Ciò nonostante è possibile che il commercio regolare a lunga distanza fosse organizzato solo tenendo conto delle spedizioni estive.

20Sulla sommità del colle, nella conca nota ancora oggi come Plan de Jupiter, già nel XIX secolo erano state individuate le tracce di un complesso che comprende un piccolo tempio in antis fondato direttamente sulla roccia37 e due mansiones poste ai lati opposti della strada, anch’esse ricavate tagliando e livellando un tratto della montagna. Il sito è stato ripetutamente indagato38 e i risultati di un recente progetto di ricerca transnazionale finanziato dalla comunità europea sono in Une voie à travers l’Europe 2008.

21Difficile è seguire la vita del valico attraverso i secoli perché la maggior parte dei viaggiatori non ha lasciato tracce archeologiche nel passaggio. Di certo si sono avuti importanti lavori di risistemazione della strada tra il 280 e il 320, come testimoniano numerosi miliari, ed è probabile che la frequentazione si sia intensificata soprattutto con l’accresciuta importanza dei collegamenti con l’area renana quando Treviri diviene residenza imperiale39.

22Intorno al 990 il monaco britannico Sigeric the Serious si reca a Roma per ricevere il pallio arcivescovile da papa Giovanni XV e, lungo la strada del ritorno verso Canterbury, sua sede di destinazione, redige un diario in cui annota le 80 tappe di quello che diventerà uno dei più famosi percorsi d’Europa, la via Francigena. Durante la quarantottesima tappa il nuovo arcivescovo supera in circa 25 km il valico del Gran San Bernardo partendo dalla stazione valdostana di Saint-Rhémy-en-Bosses40 per arrivare a Bourg-Saint-Pierre nel Vallese. Nei primi decenni del secolo successivo sorgerà, a brevissima distanza da quelli che erano stati i punti di sosta in età romana, l’Ospizio del Gran San Bernardo, voluto da Bernardo di Mentone e destinato ad accogliere viaggiatori, viandanti e pellegrini e ancora oggi aperto in tutte le stagioni dell’anno41.

23L’analisi dei materiali rinvenuti negli scavi sul colle e di quelli conservati nelle collezioni del Musée de l’Hospice, che derivano dai rinvenimenti dei secoli passati, permette qualche considerazione generale sul transito delle merci attraverso il Gran San Bernardo42. Le poche anfore sono presumibilmente legate al solo consumo diretto nelle stazioni di posta o nel santuario. La sigillata, invece, che come sempre è un indicatore piuttosto importante, mostra in una prima fase un flusso delle importazioni dall’Italia verso il mondo elvetico, mentre dalla metà del I secolo fanno la loro comparsa le sigillate sudgalliche seguite, in maniera molto meno massiccia, da quelle centrogalliche nel secolo successivo43. Ben rappresentate sono anche le sigillate elvetiche che però non sembrano scendere in Italia. Con la comparsa delle ceramiche a rivestimento argilloso44 diventa sempre più difficile stabilire il verso delle importazioni perché spesso le differenti produzioni sono indistinguibili.

24Come vedremo più avanti, indicazioni chiare di un flusso commerciale attivo anche a medio raggio vengono dal rinvenimento di due marchi di fabbrica su sigillata di età augustea prodotta a Eporedia e sicuramente esportata nel Vallese45.

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Il prolungarsi di questi contatti, anche quando il commercio a largo raggio non sembra transitare più dal Gran San Bernardo, è testimoniato dalla storia del fortunato rinvenimento, nel 1975, di uno stock di almeno 148 tegami di diverse misure in un vano, distrutto dal fuoco poco prima della metà del III secolo (circa 236-245), nell’insula 1 di Forum Claudii Vallensium, l’odierna Martigny. L’assenza di confronti in area vallese e i risultati delle analisi archeometriche hanno fatto pensare che questo lotto di materiale fosse in deposito temporaneo nel magazzino di un importatore, più che in quello di un ceramista locale. Una ricerca allargata a un’area geografica più ampia ha dimostrato poi come questi tegami siano molto ben attestati nel territorio dell’odierno Piemonte, da dove presumibilmente erano stati importati, forse però non nell’ambito di un traffico regolare46.

25L’analisi generale delle attestazioni suggerisce che il traffico commerciale dal Gran San Bernardo, almeno per quanto riguarda la sigillata, sia legato esclusivamente ai consumi regionali e che sia da circoscrivere all’area pedemontana. È molto probabile che il flusso dall’Italia verso il Vallese si fermasse tra Martigny e Massongex, poiché qui, dopo le rapide di Saint Maurice, le merci venivano trasbordate dai carri e/o dalle bestie da soma per essere caricate sulle imbarcazioni che, lungo il Rodano, andavano verso il lago Lemano47. Questa sorta di confine è molto evidente se si prende in considerazione la TSNI che, importata nel Vallese già alla fine del I secolo a.C., non arriva a Ginevra, Losanna e gli altri centri del lago Lemano, località raggiunte invece nello stesso periodo dalle sigillate centroitaliche, evidentemente commercializzate per via fluviale attraverso Lugdunum. Il Rodano, infatti, diviene rapidamente la via quasi esclusiva degli scambi a lunga distanza e dalla seconda metà del I secolo il Vallese è ormai approvvigionato dalle fabbriche galliche che soppiantano quelle cisalpine. Il persistere dell’uso delle vie transalpine, se pure come direttrici secondarie, è comunque testimoniato dalla presenza nel Vallese di mercanti cisalpini ancora tra II e III secolo48.

26Anche la presenza di sigillate galliche (sia sud che centrogalliche) sui mercati valdostani e in particolar modo ad Augusta Praetoria non può in alcun modo essere associata con certezza a un traffico di merci a lungo raggio attraverso il Gran San Bernardo, poiché la via più diretta per la Gallia passava dal valico delle Alpi Graie e arrivava comunque ad Aosta, fondata iuxta geminas Alpium fores Graias atque Poeninas49.

3.1.3. IL PICCOLO SAN BERNARDO50

27La realizzazione della strada che da Aosta conduceva al passo ha richiesto grande impegno, per la necessità di costruire molti tratti in muratura a mezza costa, che servivano a evitare il fondovalle e a mettere la strada al riparo dalle esondazioni della Dora. A Sarre è conservato un miliario di Costantino e Licinio che segna la distanza di 200 miglia, molto probabilmente da Lugdunum51. Più avanti tagli nella roccia, resti di ponti sulla Dora e sui suoi piccoli affluenti e avanzi di sostruzioni anche poderose sono le tracce molto evidenti di un percorso stradale ben strutturato52. Il collegamento più frequentato e meglio conosciuto doveva essere quello che passava da Pré-Saint-Didier lungo la Dora di La Thuile, del quale indagini recenti hanno portato alla luce diversi tratti53.

28Sulla sommità del colle, a 2188 metri di quota, dove oggi è il confine tra Italia e Francia, un complesso piuttosto vasto di edifici era il necessario punto di sosta e di ristoro per chi transitava sul passo54.

29Durante una campagna di scavo nel 1914, dietro un vano dell’edificio più occidentale (oggi in territorio francese) sono venuti alla luce alcuni preziosi oggetti in argento, forse il corredo di un edificio di culto, tra i quali un busto di Giove Dolicheno databile al III secolo e alcune placchette votive55. Dopo questi e altri scavi occasionali e del tutto non controllati, le prime indagini sistematiche del sito sono state condotte, tra il 1928 e il 1930, dalla Soprintendenza Archeologica del Piemonte. In seguito altre campagne sono state portate avanti da studiosi italiani e francesi anche in anni recenti56.

30Il complesso di età romana è formato da un fanum, un piccolo tempio di tradizione celtica le cui strutture sono state consistentemente restaurate nel 1912 prima e nel 1940 poi, e da due mansiones, una a monte e una a valle della strada antica, destinate al ricovero di animali e persone57. Le strutture, che sono oggi conservate poco più che a livello di fondazione, fanno pensare a una serie articolata di edifici, dotati anche di stalle, che presuppone una frequentazione costante e piuttosto importante del valico che, come già detto, doveva essere interamente o quasi interamente percorribile con i carri, anche se probabilmente non in tutte le stagioni. Un transito stagionale per la sigillata, peraltro, non è certo un problema poiché il vasellame poteva essere infornato solo nei mesi estivi, indicativamente da maggio a settembre, e questo permetteva di avere pronto il primo carico al momento del disgelo completo del valico e di riuscire a organizzare l’ultima spedizione prima che cominciassero le nevicate autunnali.

31Il Piccolo San Bernardo era dunque la principale via di collegamento tra Augusta Praetoria e la Gallia Lugdunense e da qui doveva transitare una notevole quantità di merci, compreso il vasellame in sigillata centrogallica e, a mio avviso, anche sudgallica58. Il trasporto via terra, se pure più costoso di quello per via d’acqua, permetteva di scegliere percorsi molto più brevi e di coprire quindi le distanze in tempi sensibilmente più rapidi, con una resa non trascurabile.

32I due versanti del Piccolo San Bernardo e tutta la Tarantaise erano abitati da uno dei primi popoli gallici che Cesare deve affrontare nel 58 a.C., iCeutrones, che riescono poi a negoziare un ingresso pacifico nell’orbita di Roma e il mantenimento di una certa autonomia, poiché non figurano tra i vinti di La Turbie e sono inseriti da Plinio, insieme agli Octodurenses e alle Civitates Cottianae, tra i popoli ai quali viene accordato il diritto latino59. Verosimilmente dopo la sistemazione del percorso strategico da Lione all’Italia attraverso il piccolo San Bernardo, con Claudio, la loro capitale, l’antica Axima, cambia il nome in Forum Claudii Ceutronum60.

3.1.4. IL MONGINEVRO E I VALICHI MINORI DELLE ALPI COZIE

33Il collegamento terrestre più diretto tra l’Italia e la Gallia era però, al fondo della Val di Susa, il passo del Monginevro (Mons Matrona secondo Ammiano Marcellino61) una via di traffico utilizzata ampiamente per lo meno dall’età protostorica per mettere in comunicazione la valle della Dora Riparia con quelle della Durance e del Rodano62. Questa « via continentale » era da sempre considerata più sicura rispetto alla « via costiera », che attraversava zone paludose e pare fosse più soggetta ad azioni di brigantaggio da parte delle tribù locali63. I popoli indigeni, oltre alle illecite attività banditesche, avevano come principale fonte di reddito la riscossione dei pedaggi, anche molto onerosi, sul transito di passi che erano tra i pochi accessibili anche d’inverno64. Dopo la sottomissione del regno di Cozio, che nel 14 o 13 a.C. stringe un patto di alleanza con Augusto65, i Romani si limitano a subentrare nell’esazione delle imposte, sistemando probabilmente le stazioni doganali ai piedi dei monti in punti di passaggio obbligati, e più in generale strutturando la Quadragesima Galliarum, di cui entrano a far parte Gallia, Germania e la quasi totalità delle Alpi66. È molto probabile che il solo o almeno il principale obbligo imposto da Augusto a Cozio fosse quello di manutenere la strada che da Ocelumportava a Eburunum, garantendo anche la protezione per viaggiatori e merci grazie alle prestazioni dei montanari. Le popolazioni di queste zone, pur conservando a lungo la propria identità in un processo di romanizzazione lento che giungerà a compimento tardivamente, riuscivano a trarre vantaggio dalla conoscenza del territorio e dalla capacità di fungere allo stesso tempo da guide e da portatori, rendendosi indispensabili per agevolare il passaggio di persone e merci67.

34Sul versante italiano le valli sono molto strette, con poche deviazioni e particolarmente impegnativo è il tratto che da Cesana sale al passo, percorso descritto in maniera molto colorita già da Ammiano Marcellino, quando accompagna l’imperatore Giuliano nella sua campagna militare contro Franchi e Alamanni : egli transita in primavera e narra di burroni, venti caldi che sciolgono le nevi, tratti ghiacciati e insidie di ogni genere, per superare le quali è necessario legare i carri con le funi affidandosi alle guide locali68.

La porta romana a Susa

35In Val di Susa, accanto a siti di origine preromana come Goesao(Cesana Torinese ?), Excingomagus(Exilles), Segusio (Susa) e Ocelum, sono note le stationes ad Martis (Oulx) e ad Fines (Avigliana), insediamenti evidentemente sistemati insieme alla viabilità di età romana. La presenza di alcune dediche alle Matronae a Foresto69 vicino a Bussoleno, è probabilmente traccia dell’esistenza di un luogo di culto70. Anche sul versante francese la strada riprende dei percorsi preromani, risistemati e pavimentati ; ne rimangono numerose tracce in varie parti della val d’Oise, in particolare a Le Bourg-d’Oisans, a Le Freney-d’Oisans e in diversi altri centri tra Grenoble e Briançon, dove sono ancora visibili tratti di una strada nota come Rochetaillée. In età romana la Val d’Isère era approvvigionata prevalentemente attraverso Grenoble e la rete fluviale del Rodano : dalla penisola iberica e dalla Britannia arrivavano lingotti di piombo, da Italia, Grecia, Asia Minore ed Egitto le pietre e i marmi e dalla Betica l’olio e le salse e le conserve di pesce. Contemporaneamente è molto probabile che dalla Val d’Isère si esportassero verso l’Italia ceramica, legno, tessuti e altri prodotti del territorio o che dal quel territorio transitavano71.

36Poco più a nord, al fondo della val Cenischia72, si trova il ripido passo del Moncenisio che, a dispetto della sua importanza e notevole uso dall’età medievale, come testimonia anche la fondazione dell’abbazia di Novalesa, in epoca romana doveva essere destinato al traffico transfrontaliero e agli scambi a breve raggio73. Più in generale è molto probabile che tutte le diverse vie tra la valle dell’Arc e Segusio, come ad esempio gli alti colli di Arnàs e dell’Autaret74, servissero essenzialmente ai commerci e ai trasferimenti locali o regionali75.

37Più a ovest, lungo la riva destra dell’Arc, comunque, di fronte a Saint-Jean de Maurienne, è stato riconosciuto un tratto di via carrozzabile affiancato da tagli nella roccia che formano dei gradini forse destinati al transito dei pedoni76. Poco più a valle, a Saint-Avre-la-Chambre, si trovava probabilmente una statio e una ventina di chilometri più a valle, ad Aiguebelle, è stata trovata una dedica frammentaria a Mercurio, patrono dei viaggiatori77. Lungo tutto questo tratto di strada, a Saint-Jean, a La Chambre e a Jarrier in particolare, è venuto alla luce, insieme ad altri materiali, vasellame in sigillata sud e centrogallica. Lo stesso Piero Barocelli dice di aver raccolto numerosi frammenti di sigillata, pochi dei quali di produzione italica, e di aver invece riconosciuto, anche grazie alla presenza di marchi di fabbrica, materiali di La Graufesenque e di Lezoux, tra i quali alcune coppe parzialmente ricomponibili78.

Fig. 13 – I centri posti lungo la via del Monginevro e del Moncenisio, sul versante italiano e su quello francese.

Fig. 13 – I centri posti lungo la via del Monginevro e del Moncenisio, sul versante italiano e su quello francese.

IL DEPOSITO VOTIVO DEL MONTE GENEVRIS
8Alla confluenza tra la Dora Riparia e la Dora di Bardonecchia sorge oggi Oulx, l’antica statio ad Martis79 e alle sue spalle svetta il Monte Genevris, una cima di 2500 metri. Non lontano dal punto di passo tra la val di Susa e la val Chisone80, in località Richardet a 2000 metri di quota, nel 1933, è venuto alla luce quello che sembra essere un deposito votivo, probabilmente secondario, che conteneva molte monete, oggetti in metallo e un gran numero di vasi con iscrizioni graffite81.

39Purtroppo il recupero è stato fatto in maniera del tutto casuale e molti oggetti si sono persi (o sono stati trafugati) subito. Anche in seguito, le vicende dei materiali sono state piuttosto tribolate e ora solo una piccola parte del nucleo originario ha trovato la sua giusta collocazione in una vetrina dedicata del Museo di Antichità di Torino.

40Tra i frammenti di vasi giunti fino a noi, ben 65 riportano una dedica ad Albiorix e 22 ad Apollo ; sono inoltre presenti graffiti in cui sono uniti Marte e Apollo, ma anche Apollo e Albiorix, divinità indigena che forse si può assimilare a una sintesi tra Apollo e Marte82.

41La presenza quasi esclusiva di bicchieri e ollette per bere fa pensare che la pratica di portare offerte sul Monte Genevris fosse legata all’esistenza di una sorgente oggetto di venerazione, a giudicare dalle forme ceramiche e dalle monete, per lo meno tra il I e tutto il III secolo. Il periodo di maggior frequentazione del luogo sembra essere stato il II secolo, anche se è difficile fare delle affermazioni precise a proposito di un contesto così martoriato e poco circoscritto. Più complesso mi pare stabilire quale fosse il quadro in cui si inseriva questo luogo di culto. Elena Cimarosti ritiene che potesse essere legato a un transito intervallivo verso la val Chisone83, ma è un’ipotesi tutta da verificare. Abbiamo visto altrove (Gran San Bernardo e Piccolo San Bernardo, ad esempio) come il tempio (o santuario o semplice sacello, non ha importanza) sorgesse di solito in prossimità del valico, mentre qui siamo in quota, ma in un punto mediano del versante occidentale del monte. Inoltre non mi pare che la via di transito sia ben definita e avrei anche dei dubbi sull’esistenza di un percorso in qualche modo strutturato che passi in vetta. Cosa che non esclude per forza un passaggio di persone, animali e forse anche merci, ma come fatto del tutto sporadico e locale. La strada di comunicazione principale tra le due valli credo dovesse passare allora, come oggi, attraverso il sito dell’attuale Cesana Torinese e il valico del Sestriere.

42Tra i reperti sono presenti pochi pezzi di sigillata, tutti di produzione gallica, tra i quali almeno due coppe Drag. 33 attribuibili a fabbriche tarde di la Graufesenque o di Banassac e databili tra gli ultimi decenni del I secolo e la metà di quello successivo, o a quelle centrogalliche.

3.2. AL DI LÀ DELLE ALPI : LUGDUNUM

43Colonia Copia Felix Munatia Lugdunumviene fondata nel 43 a.C. da L. Munazio Planco, come egli stesso ricorda nell’iscrizione del suo mausoleo a Gaeta84, con il tradizionale rito del solco tracciato con l’aratro trainato da una giovenca e un bue bianchi, preceduto e seguito da tutte le usanze e le cerimonie connesse alla sacralità dell’atto. Le tracce del primo impianto della colonia sono emerse solo di recente e sono molto labili, poiché si trattava di una città di terra e di legno, edificata sullo schema dei campi legionari, per la quale non si riconoscono edifici pubblici tranne uno pseudo santuario di Cibele85. In età augustea, con la riorganizzazione della provincia voluta da Agrippa, Lugdunumdiventa non solo la capitale della Gallia Lugdunense, ma anche la sede del potere imperiale e di quello religioso per le tre Gallie, e si avvia a essere la « métropole économique des Gaules »86 ; nel 15 a.C. nasce la zecca di Lugdunum.

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44La vera trasformazione urbanistica avviene però solo in età claudia, probabilmente anche grazie ai favori che il principe elargisce alla sua città natale, ma non sono molte le opere che gli si possono attribuire con sicurezza87.

45Sappiamo dalle fonti di un incendio devastante scoppiato nel 64, che avrebbe provocato danni tanto ingenti da spingere Nerone a restituire alla città quattro milioni di sesterzi inviati a Roma prima del disastro. Di questo evento, però, non è mai emersa alcuna traccia archeologica sicura88.

46Elemento cardine della città, sulle pendici della Croix-Rousse, è il santuario federale delle Tre Gallie, il cui aspetto ci è noto dalle raffigurazioni sulle monete di età giulio-claudia, ma della cui organizzazione sappiamo molto poco.

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anfiteatro di Lugdunum

47Lugdunum, grazie alla sua felice posizione geografica, alla confluenza tra la Saône e il Rodano, diventa ben presto uno snodo commerciale, un porto e un centro di produzione di primo piano, come testimonia anche una eccezionale concentrazione di iscrizioni (almeno una trentina) che ricordano artigiani diversi tra i quali produttori di sapone e di tessuti, tintori, mercanti di vino e di ceramica89, oltre a un negotiator argentarius et vascularius90. Ben attestati sono soprattutto i nautaedelle corporazioni legate alla navigazione fluviale sul Rodano e sulla Saône e, più in generale, i negotiatoresattivi nei commerci tra i due versanti alpini, come Sennius Metilius, originario di Treviri, noto da un cippo rinvenuto a Lione nel 188491.Risultati immagini per SANTUARIO FEDERALE DELLE TRE GALLIE

moneta con l’altare delle tre Gallie

48A Lugdunum impiantano grandi filiali anche alcuni produttori italici, come il ceramista pisano Cn. Ateius92, che si rendono conto di poter così gestire meglio l’approvvigionamento degli eserciti stanziati sul limes renano, e in breve la città attira artigiani e mercanti da centri vicini e lontani, come un anziano produttore di vetri di origine cartaginese93 o i negotiatores vinarii di Alba94 e di Treviri95. Sono noti intermediari attivi in diversi rami, come C. Sentius Regulianus che commercializzava vino, ma importava anche olio della Betica, ed è probabile che almeno parte dei battellieri gestisse delle vere e proprie imprese di trasporti sia fluviali che terrestri96.

49Sulla Saône sono stati individuati a più riprese diversi porti probabilmente destinati alla gestione di merci differenti e, in anni recenti, sulla riva destra, nello scavo per la realizzazione del parcheggio Saint-Georges, sono stati rinvenuti ben sedici relitti databili tra il I e il XVIII secolo ; di questi, sei sono di epoca romana (I-III secolo). Si tratta di chiatte a fondo piatto, prive di chiglia, che arrivano a superare i 30 metri di lunghezza e i 5 di larghezza ; profonde fino a 120 cm, potevano caricare circa 150 tonnellate, una portata di tutto rispetto, che fa pensare a traffici regolari e probabilmente destinati anche a centri lontani. Le chiatte erano in grado di navigare nei due sensi, scendendo lungo il fiume e risalendo poi la corrente al traino di bardotti o animali da tiro97.

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Ricostruzione Lugdunum

 

50Dozzine di piombi da dogana scoperti nell’Ottocento sono una ulteriore testimonianza dell’intensa attività commerciale di Lugdunumtra il I secolo e gli inizi del V e l’identificazione recente di una produzione di anfore in città avvalora l’ipotesi di un grande centro di ridistribuzione di merci, poiché si ritiene che i contenitori servissero a confezionare prodotti importati sfusi in botti o dolia per smerciarli poi per via fluviale o terrestre98. A questo si aggiunge ancora almeno una considerazione : se davvero gli enormi magazzini venuti alla luce a Vienne, poco a valle di Lione, servivano, come è stato proposto, allo stoccaggio delle derrate usate per il pagamento in natura delle imposte che le province galliche inviavano a Roma (tessuti, cereali, pelli, minerali, vino ecc.), bisogna allora pensare che tutta questa gigantesca massa di merci transitasse in qualche modo da Lugdunum99.

51La sigillata sudgallica arrivava a Lione risalendo il Rodano, probabilmente da Avignone, dove doveva essere portata via terra da La Graufesenque e Banassac ; i prodotti di Lezoux, invece, erano trasportati via terra.

3.2.1. L’ESAZIONE DELLE IMPOSTE SULLE MERCI IN TRANSITO : LA QUADRAGESIMA GALLIARUM100

52Fin dall’età repubblicana una delle principali entrate dello stato era costituita dai portoria, le tasse doganali che venivano applicate su tutti i beni in transito, sia in entrata che in uscita. Tra i pochi articoli esenti erano i mezzi di trasporto, gli oggetti personali e le merci destinate agli eserciti o all’imperatore e ai suoi diplomatici ; il controllo sembra fosse molto attento, anche sui carichi a destinazione mista.

53Il vectigal, l’imposta obbligatoria per le merci che transitavano dalle frontiere con la Gallia101, era fissata al 2,5 % sul valore della merce che veniva dichiarata alla frontiera. In un primo tempo la riscossione del dazio era in appalto a una società di publicani il cui archivio si trovava a Lugdunum, sede amministrativa scelta per la gestione della tassa. Testimonianza diretta di questa organizzazione sono le due basi di statua in calcare donate da Pudens, un servo dei soci appaltatori di età giulio-claudia che, avendo fatto un voto mentre era ispettore alla statio ad Fines Cottii, lo scioglie dopo essere diventato responsabile della sede amministrativa di Lugdunum102. Datata al II secolo è invece la stele di Victorina, moglie di Faminale, uno schiavo alle dipendenze di Marco Tarquinio Memore, soprastante della stazione doganale di Borgo San Dalmazzo (Pedona)103.

54Tra la fine del II e gli inizi del III secolo, le modalità di esazione cambiano e lo stato subentra direttamente nel gestire la riscossione del dazio, attraverso impiegati incaricati del controllo delle merci in transito, del calcolo dell’imposta e del suo incasso (stationarii), coadiuvati da schiavi o liberti.

 

 

SIGILLATA GALLICA TRA LE ALPI E IL PO

Pubblicazione di Ada Gabucci sulla distribuzione della ceramica sigillata gallica lungo L asse del Po

 

LINKS AL TESTO INTERO DELL’OPERA

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Nella prima età augustea, con qualche decennio di ritardo rispetto alle officine italiche, anche le manifatture sudgalliche iniziano a sperimentare la produzione di vasellame con vernice rossa6. Si tratta di modelli lisci e privi di decorazione che imitano le forme di transizione dalla vernice nera e che vengono realizzati con una progressiva elaborazione tecnica7. In una prima fase gli artigiani cuociono le loro ceramiche in atmosfera riducente, in forni in cui la fiamma era a diretto contatto con i vasi. La fase di raffreddamento, lento processo durante il quale piatti e coppe acquistano il loro aspetto definitivo8, poteva avvenire in atmosfera ossidante (modo di cottura A) o riducente (modo di cottura B). Nel primo caso si ottenevano dei prodotti con superficie rossa o comunque di un colore molto simile a quello dell’argilla, mentre il secondo dava dei risultati variabili, dal grigio al nero o al blu scuro, a seconda dei componenti dell’impasto.

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Nella foto  sotto La Cisalpina con l’evidenza del bacino del Po, del tracciato della via Postumia e dei siti in cui è accertata la presenza di sigillata gallica.

Fig. 10 - La Cisalpina con l’evidenza del bacino del Po, del tracciato della via Postumia e dei siti in cui è accertata la presenza di sigillata gallica.

4A partire dall’età tiberiana, mentre un certo numero di officine non riesce a seguire l’evoluzione delle tecniche e declina rapidamente, altre si riconvertono, impiantano grossi forni a muffola, in cui il fumo veniva raccolto in tubuli e portato all’esterno della camera di cottura, e iniziano a produrre vasellame in atmosfera ossidante continua e controllata, a una temperatura di circa 1050°, raffreddato ancora in atmosfera ossidante (modo di cottura C). Ottengono così prodotti di buona qualità e molto resistenti, destinati soprattutto all’esportazione verso mercati lontani. In breve tempo le fabbriche della Gallia meridionale (e quelle di La Graufesenque in particolare) si trasformano in vere e proprie imprese in grado di realizzare centinaia di migliaia di vasi ogni anno.

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Con questo riassetto dei centri di produzione, di fatto, si creano sulle rive di due affluenti della Garonna, il Lot e il Tarn, due poli produttivi che si differenziano soprattutto nel modo di gestire i traffici commerciali. Da un lato i ceramisti di Montans, o per lo meno i negotiatores che si occupavano di vendere i loro prodotti, scelgono di rivolgersi ai mercati regionali dell’Aquitania, fino all’Atlantico, e della penisola iberica settentrionale, approfittando di una rete di fiumi e canali che permetteva un trasporto quasi esclusivo per vie d’acqua9. Più a est, invece, intorno ai siti principali di La Graufesenque e Banassac si aggregano, in un regime probabilmente di parziale dipendenza, altri centri minori come Le Rozier ed Espalion, le cui officine realizzano vasellame di buona qualità molto simile a quello di La Graufesenque, se pure con delle peculiarità proprie. La strategia commerciale del gruppo La Graufesenque/Banassac è rivolta principalmente ai campi legionari dell’Occidente romano e agli scambi a vasto raggio, che portano il vasellame sudgallico molto lontano, dal nord Africa alla Britannia e alla penisola Iberica fino in Dacia10…..

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