
Da cafoscarinews unive.it
La questione dei Celti continua a suscitare grande interesse, non solo nel mondo scientifico che ha dedicato loro programmi di ricerca, seminari e convegni, ma anche presso istituzioni culturali, musei e associazioni che hanno organizzato importanti mostre da “Celti” a “Venetkens”, non tralasciando il fatto che l’approccio al mito celtico abbia incluso anche distorsioni ideologiche e politiche. L’impatto culturale dei Celti sui popoli italici ed in particolare sui Veneti antichi è oggetto da anni degli studi di Giovanna Gambacurta, archeologa del Dipartimento di Studi Umanistici, che proprio partendo dalla concretezza e trasparenza del dato archeologico ha restituito una sintesi del fenomeno del celtismo in Veneto interpretato a tutto tondo nel volume scritto a quattro mani con Angela Ruta I Celti e il Veneto (2019).
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Un viaggio che si svolge lungo cinque secoli di storia, dai primi contatti della fine del VI-primi del V sec. a.C. fino alle soglie della romanizzazione.

Le abbiamo chiesto di tracciare un quadro in poche pennellate di una cultura ancora così poco conosciuta e affascinante che si materializza davanti ai nostri occhi attraverso i reperti: gioielli, spade, fibbie, monete, decorazioni, iscrizioni, perché, come si sottolinea nel volume “Se usata con uno sguardo ‘da reporter’, l’archeologia sa essere una chiave di lettura attuale ed obiettiva nella conoscenza delle relazioni tra culture per diventare il palinsesto di una narrazione sapientemente dipanata”.
Nell’ambito del suo studio ventennale sul Celtismo in Veneto, ci può dire qual è il rapporto tra i Celti e il Veneto antico, quali i tratti caratteristici e i punti di contatto?
Diversamente da altre zone dell’Italia settentrionale, che a partire dal IV secolo a.C. conoscono una invasione violenta da parte di una o più tribù celtiche, il Veneto istituisce un rapporto di ‘non belligeranza; la forte coesione e coerenza della civiltà veneta consente un rapporto dialettico e dinamico che inizia già sullo scorcio del VI secolo a.C. e favorisce l’inserimento nel tessuto sociale di singoli personaggi, famiglie, piccoli gruppi che a volte vanno ad occupare spazi di territorio marginale, formando enclave che coesistono e si integrano senza gravi fratture.
Il contatto con diverse tribù celtiche, provenienti da occidente o da oltralpe, contribuisce ad un arricchimento del gusto, manifestato inizialmente soprattutto attraverso i monili, e progressivamente con l’implementazione dei commerci e l’integrazione di usi e costumi.

Qual è la novità della chiave di lettura e della prospettiva adottata nella recente ricerca culminata con la pubblicazione del volume “I Celti e il Veneto”?
Si tratta di un esperimento che Angela Ruta ed io abbiamo fortemente voluto e condiviso, quello di far coesistere un aspetto di documentazione scientifica sistematica e il più possibile completa con una interpretazione esposta con un linguaggio narrativo, rivolto ad un pubblico non necessariamente specialistico. Ci sembrava necessario far sì che il nostro lavoro di raccolta e documentazione, ormai ventennale, sfociasse in una visione di sintesi di ampio respiro e di chiara accessibilità.

Il mondo celtico è variegato, formato da tanti gruppi e tante tribù, mentre i Veneti antichi sono una civiltà molto compatta, come si realizza l’integrazione tra loro, ci può fare alcuni esempi?
L’integrazione si realizza progressivamente, sulla base di un contesto socio-culturale veneto che fa della sua coerenza un punto di forza per l’integrazione dell’ ‘altro’. Il primo segnale è l’influsso della moda. Le donne venete non possono non rimanere colpite dal gusto della decoratività propria del mondo celtico, dall’uso del colore per i bracciali di vetro (vedi figura grande sopra), alla ricchezza della decorazione con motivi vegetali nei monili, all’uso dell’argento e dell’oro per anelli, bracciali, orecchini. Tra i monili famoso e identitario è il torquis, la collana rigida che portavano anche i guerrieri e che compare anche sui bronzetti dedicati nei santuari come ex-voto. La migrazione di individui singoli o piccoli nuclei familiari, piuttosto che di intere tribù, è incentivata dall’ampliarsi dei commerci, ma anche dalle guerre che divampano nel mondo italico; i celti, infatti, famosi guerrieri, ricoprono spesso la funzione di mercenari; la loro arma identitaria è la spada che presuppone un modo di combattere in duello, lontano dal combattimento in schiera o in falange.

Ci sono degli oggetti tra quelli incontrati nei suoi studi che ci danno indicazioni utili per capire la cultura dei Celti e la loro storia o sono descrittivi del loro modo di essere?
Alcune loro ‘storie’ a contatto con la società del Veneti sono ben rivelate da alcuni monumenti iscritti. Tre ‘ciottoloni’, rinvenuti a Padova e nei pressi della città, a Trambacche, riportano nelle iscrizioni una intera genealogia. Un capostipite, Tivalio Bellenio, giunge a Padova dalla zona di Mantova (area celtica Cenomane), probabilmente sullo scorcio del VI secolo a.C.; non sappiamo quale fosse la sua attività, ma le iscrizioni ricordano che suo figlio Fugio Tivalio Andetio, il nipote e il pronipote Voltigenes Andetiaio e Fremaisto Voltigeneios, hanno potuto acquisire il titolo di ‘ekupetaris’, il più prestigioso nella società locale. Segno dunque che questi individui avevano scalato i vertici della società veneta antica in una dinamica di integrazione.
Ancora, in una sepoltura atestina, una situla di bronzo usata come prestigioso ossuario, accoglie le ceneri di due donne Frema Boialna e Rebetonia Votina, riunite per testimoniare un forte legame familiare e affettivo. I loro nomi ci dicono che Frema è una veneta moglie di un Boios, un celta della tribù dei Boi, mentre Rebetonia è una donna celtica, moglie di un Votos, dal nome inequivocabilmente veneto. I matrimoni misti davano quindi origine a nuclei familiari di significativo livello sociale, che di fatto rappresentavano la positiva evoluzione di fenomeni di integrazione.
La riscoperta della cultura celtica e l’attenzione verso queste popolazioni ha portato recentemente anche a distorsioni di natura politico ideologica. Forse la concretezza del dato scientifico ci aiuterà a fare chiarezza? bbbbb

Il tema del celtismo ha conosciuto storicamente e particolarmente negli ultimi decenni forme di distorsione e strumentalizzazione ideologica e politica. Il compito dell’archeologia è quello di ricondurre la discussione alla documentazione concreta, alle fonti primarie, e quindi di rimettere in ordine le sequenze degli avvenimenti, prima di giungere alla loro interpretazione in chiave sociale e antropologica, oltre che storica. Il panorama dei reperti archeologici è un dato di partenza il più possibile oggettivo, sulle interpretazioni si può discutere ed esprimere posizioni diverse, ma la base documentaria è inequivocabile, da quella non si dovrebbe mai allontanarsi.


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Da il manifesto.it
Articolo di Beatrice Andrease
Già dalla seconda metà del I millennio a.C. il fascino per i gioielli di gusto esotico tra gli antichi Veneti è favorito dall’intenso e fiorente commercio con i Celti di Golasecca ed Halstatt. Nel IV sec. a.C. le élite si scambiano gioielli in argento o in pasta vitrea e la staffa a terminazione zoomorfa delle fibule, le spille che accompagnano i tessuti rievocano quelle trovate nella necropoli del Dürrnberg vicino ad Hallein.

In pianura, da Este a Padova ma anche ad Oderzo, circolano le fibule ad arco rialzato o quelle dotate di molla bilaterale e compaiono grandi orecchini in argento o in bronzo con terminazione a bauletto che risentono del gusto tipico dell’Est. Oltre a importare fibule, armille (braccialetti) e orecchini i gusti decorativi celtici influenzano anche la produzione locale di armi e ceramiche. Ad Este oreficerie specializzate lavorano per una clientela privilegiata, le signore si agghindano come le straniere e le giovani spose, arrivate da lontano con la loro dote, cementano nuovi legami di parentela.

C’è poi il gancio da cintura traforato che i Celti utilizzavano come sistema di sospensione della spada, mentre in Veneto viene adottato come accessorio
dell’abbigliamento soprattutto femminile. Più della spada, dunque, poterono la moda e il fascino per le linee morbide e i disegni vegetali dei gioielli di quei popoli che nel IV sec. a.C. distrussero città come Mediolanum e si insediarono a Felsina, l’attuale Bologna. Il Veneto che già da almeno duecento anni vantava città dalla spiccata autonomia, una propria scrittura ed un proprio sistema religioso, rimane ai margini delle guerre conservando la propria identità e coesione. Ad affermarlo sono due tra le più importanti studiose della antica civiltà veneta Giovanna Gambacurta e Angela Ruta Serafini nel loro ultimo lavoro I Celti e il Veneto, Ante Quem editore.
Il volume si avvale di un corposo apparato fotografico, è arricchito da disegni esplicativi, utilissime carte distributive che introducono ogni capitolo e, in appendice, da liste analitiche dei rinvenimenti che rendono leggibile la narrazione anche ai non addetti. Nel volume, che ospita anche un saggio sulla monetazione locale di Federico Biondani, sono descritte le diverse fasi che caratterizzano i rapporti tra i due popoli, attraverso una rigorosa scansione cronologica che parte dal V sec. a. C. sino alla romanizzazione. Le autrici sottolineano i «differenti momenti di confronto tra culture» l’integrazione e le numerose direttrici di traffico oltreché «la autonoma rielaborazione locale di modelli alloctoni, segnali di una elevata pulsazione del territorio». Un supporto storico e archeologico ben diverso dalla narrazione leghista su una supposta identica matrice celtica dei popoli del nord.

Nessuna invasione in armi dunque nella fertile regione degli Eneti dove, tra il VI e la seconda metà del V sec a.C., la presenza celtica è costituita da piccoli gruppi di armati che si insediano in aree marginali come Montebello o Montebelluna per affiancarsi alla popolazione locale.
Nemmeno nel IV sec. a.C. quando le invasioni storiche culminano nella presa di Roma da parte dei Senoni cambia qualcosa. Nonostante la ripercussione di tali eventi debba aver «comportato una vasta eco nella penisola – spiegano le autrici- provocando la diaspora di nuclei di armati che si offrivano come mercenari, cercando appoggio e sostegno presso le popolazioni italiche». In quel periodo in Veneto fanno capolino fibule dalle nuove forme e armille in pasta di vetro dai colori vivaci insieme ad anelli d’argento e orecchini vistosi.
I guerrieri Celti vengono progressivamente inseriti nelle società locali, si recano nei santuari di Altino, Este, Lagole di Calalzo dove lasciano bronzetti votivi per propiziarsi il favore delle divinità e allontanare i pericoli della guerra. Ad Altino una iscrizione votiva, rinvenuta nel santuario nord occidentale, ricorda un addetto al culto della divinità marziale Belatucadro, equivalente al dio celtico Beleno. A partire dalla metà del III sec. a. C. i gioielli in oro, argento e pasta vitrea assieme al vasellame in bronzo di ispirazione etrusco ellenistica indicano un probabile periodo di pacificazione e di sviluppo. Le attestazioni onomastiche con influssi celtici si moltiplicano tra il III e il I sec. a.C. ad Este, Altino, Oderzo, Vicenza dove troviamo singoli personaggi o nuclei familiari eminenti inseriti nella società locale grazie ad importanti relazioni economiche e politiche. Attorno alla metà del III secolo un celta di origine boica è perfettamente inserito nella élite atestina e i matrimoni misti diventano probabilmente una consuetudine.
In una situla di bronzo usata come ossario il nome Frema Boialna, testimonia il matrimonio di una signora locale con un immigrato di provenienza boica. Il nome dell’altra defunta, Rebetonia Votinia, rivela le sue origini celtiche. Ad Isola Vicentina in una stele il committente del monumento si chiama IATS, un nome «forse riferibile al popolo celtico dei Laevi e la sua condizione di straniero venetizzato Osts Venetkens».
Nel secolo successivo il dominio cenomane si consolida nel comparto sud occidentale fino ad accerchiare Este e le campagne circostanti. Nella bassa pianura veronese e a Verona, centro multietnico da cui passa l’Adige, nelle tombe dei guerrieri vengono esibite panoplie complete che rappresentano la condizione di uomini liberi all’interno della comunità. Nel comparto centro orientale invece si diffondono i torques, una affermazione di identità celtica che recupera la tradizionale collana rigida. Stabilità e benessere favoriscono nuovi traffici e la ricchezza si percepisce dallo sfoggio del costoso vasellame da mensa. In quel periodo nel Veneto occidentale inizia a circolare la dracma di imitazione massaliota (ovvero originaria di Marsiglia) di provenienza padana, mentre in quello orientale l’imitazione della dracma massaliota è locale. La svolta arriva attorno al 225 a.C. Quell’anno i Veneti alla battaglia di Talamone inviano, insieme ai Cenomani, contingenti in appoggio ai Romani contro i galli Boi, gli Insubri e i Gesati.
Nel 186 a.C. dodicimila Galli transalpini invadono le propaggini della regione ad est ma dopo tre anni vengono respinti e costretti a ritirarsi. A presidio della frontiera verso l’Istria quanto verso la traiettoria settentrionale austriaca e le regioni ricche di ferro della Carinzia i Romani fondano e rafforzano Aquileia inviando ben 1500 famiglie d’accordo con le élites locali. Roma costruisce importanti strade consolari come la via Postumia che attraversa l’Italia settentrionale e, in Veneto, collega Verona ad Aquileia. I contatti col sud sono assicurati dalla via Annia sulla direttrice Ravenna, Adria, Padova e Altino e da una altra strada che, distaccandosi dalla via Emilia all’altezza di Modena, arriva fino ad Este. E così, alleandosi con Roma, i Veneti cercano di difendersi dalla crescente pressione cenomane nel basso veronese dove l’incremento delle armi si fa sempre più minaccioso. Nel 222 infine i Romani proibiranno l’uso delle armi ai Cenomani favorendo una relativa stabilità per il Veneto le cui città entreranno gradualmente a far parte del futuro impero.